Un post dovuto che non avrei voluto scrivere.

È difficile per me scrivere questo post, per motivi che andando avanti saranno molto chiari. È così difficile che sono settimane che valuto se farlo, che mi chiedo se sarò in grado di esprimere adeguatamente il mio pensiero, la mia posizione, a dire qualcosa di veramente sensato: poi però ho visto – nel corso delle settimane – commenti ed esternazioni che sono andate dal troppo tiepido al posizionato in maniera indegna e mi sono reso conto che dovevo parlare.
Non solo, proprio perché la persona di cui si parlerà è stata così importante per me, la mia voce non può essere silente. Non stavolta.
Quindi eccoci.
Stiamo parlando delle denunce fatte nei confronti di Neil Gaiman e dell’articolo uscito su Vulture che, dopo mesi da quando era già fuoriuscita la notizia, fornisce un approfondimento molto crudo e dettagliato di quanto sembra essere accaduto (lascio il link qui, ma vi avviso che è una lettura molto difficile e pesante).
Ho scritto “sembra essere accaduto” per scrupolo, uno scrupolo che non credo manterrò per il resto di questo post per i motivi che spiegherò a seguire, ma anche perché ho bisogno di distaccarmi dagli ultra garantisti che escono ancora più del solito quando si tratta di denunce di molestie o stupri, chissà perché.
Ovviamente il giorno che ho avuto per la prima volta sentore di queste denunce, mi è crollato il mondo addosso: Gaiman è stato da decenni non solo il mio autore preferito, ma anche quello che in mille modi ha formato il mio gusto, la mia visione, la mia sensibilità come lettore e come scrittore. Per poche persone sarei stato pronto a mettere la mano sul fuoco, tra quelle a me sconosciute nella vita di tutti i giorni e lui era una di queste.
Il primo istinto, quindi, è stato ovviamente quello di voler respingere il pensiero. Quello che porta a difendere amici, parenti e conoscenti e che sono sempre stato pronto a stigmatizzare. Lo ammetto, per qualche istante sono stato molto tentato di cedere, di rimandare a data da destinarsi, di convincermi che sicuramente ci fosse un errore.
Poi mi sono ricordato alcune delle regole che, da femminista, ho ritenuto sensato darmi: si crede sempre alla vittima, anche se c’è presunzione di innocenza. Questa frase sicuramente farà scatenare non solo i garantisti opportunisti, ma anche persone magari che pensano di essere più neutrali e che – appunto – ritengono che basta che la giustizia faccia il suo corso. Un pensiero che sarebbe bello, se non fosse spesso e volentieri irreale e – soprattutto – se non fosse inficiato dagli squilibri di potere.
Perché, checché si possa dire della cancel culture (e non è questo momento e luogo di parlarne), la verità è che il potere dell’accusato è nella maggior parte dei casi molto maggiore di quello dell’accusatrice: a volte in maniera più che evidente (un autore famoso internazionalmente vs. una ragazza che ha fatto da baby sitter al figlio), altre semplicemente perché in una società patriarcale l’uomo è più creduto e garantito (“com’eri vestita?”, “cos’hai fatto perché reagisse così?”, “che ci facevi in giro a quell’ora?”, “perché eri truccata?”, devo davvero proseguire?).
La leggenda vuole che ci siano donne che denunciano gli uomini per rovinare loro la vita, magari per prendere soldi o fama o chissà cos’altro. È una leggenda a cui decenni fa ho creduto anch’io, perché mia madre stessa (degna figlia del patriarcato, ora lo so, allora no) ogni tanto la ripeteva. Ecco, il giorno in cui mi verranno fornite statistiche che dimostrano che questa è una situazione frequente che porta alla rovina della maggior parte degli uomini accusati, allora magari mi ricrederò, ma so che il problema non si porrà mai, perché semplicemente non è vero: la verità pura e semplice è che anche le denunce verso i colpevoli spesso vanno a finire in un nulla di fatto, figuriamoci quelle verso gli innocenti (sempre che ce ne sia qualcuna, immagino di sì, nulla è impossibile, magari altamente improbabile).
Quello che è più credibile, invece, è che troppi uomini ritengano legittimi e anzi giusti comportamenti che non lo sono, che la società ha permesso loro in quanto privilegiati e dei quali ora, invece, devono cominciare a rendere conto. Un po’ come il famoso “non si può più dire niente” che sentiamo regolarmente, guarda caso soprattutto da uomini bianchi etero cisgender: non è che non si possa più dire nulla, è che ora vi si rende responsabili di ciò che dite. Non è che “ora” certi gesti sono molestie: lo sono sempre state, ma ora dovete assumervene la responsabilità.
E poi faccio mio un ragionamento di Susanna Raule letto su facebook: se parliamo di presunzione di innocenza, dobbiamo parlarne per entrambe le persone in gioco; dire che si presume che l’accusato sia innocente vuol dire anche accusare – senza prove – che l’accusatrice stia mentendo: in quel caso non c’è presunzione di innocenza? O, appunto, vale solo in una direzione.
Tutto questo discorso non significa che la legge non debba fare il suo corso e che non ci debbano essere indagini e condanne legali, significa esclusivamente che etica, morale e società non vanno necessariamente di pari passo col sistema legale e nascondersi dietro il famigerato “innocente fino a prova contraria” fa il gioco dei molestatori, in questi casi.
Per cui sì, già qualche mese fa avevo deciso che quelle denunce indicavano che il mio autore preferito fosse un problema e che avesse molto probabilmente avuto comportamenti ben oltre lo scorretto.
Poi è arrivato l’articolo e le conferme non sono mancate. Di nuovo, qualcuno obietterà che l’articolo racconta solo una voce, ma non è vero. L’articolo racconta nei dettagli una voce, ma ne riporta anche altre di persone che non si conoscono tra di loro ma che – guarda caso – raccontano vicende e comportamenti molto simili.
Molestie. Insistenza. Incapacità di riconoscere un consenso reale da uno estorto. Abuso di potere. Rapporti con tendenza sadiche ottenuti senza il consenso esplicito. Proposte e ottenimento di NDA.
Volete dubitare di una persona? Ok. Possiamo non concordare, ma posso decidere di concedervelo. Ma quando le persone si moltiplicano, la questione si fa molto diversa.
Sono molte le cose disturbanti che vengono fuori da quell’articolo e che – per chi conosce lui ma anche sua moglie Amanda Palmer – finiscono per avere senso: non si vorrebbe, ma è così e bisogna prenderne atto.
Certo, il comportamento della voce principale nell’articolo può apparire contraddittorio, può sembrare consensuale in vari momenti, ma vogliamo contestualizzare la situazione? Un uomo di 60 anni e una ragazza di 20 in suo completo potere. Mai sentito parlare di plagio? Di manipolazione? Se – per dire – la legge italiana aumenta l’età del consenso quando c’è un rapporto di potere e subordinazione ci sarà un motivo, no?
Qualcuno continuerà a voler credere che il consenso ci fosse anche se viene detto di no. Bene. Chiedetevi a quel punto se – nonostante l’apparente legalità del tutto – siete pronti a mettere la mano sul fuoco sulla moralità, sull’etica, sul fatto che sia giusto. Ecco uno dei motivi per cui giustizia e accuse non è detto facciano lo stesso percorso.
Gaiman poi ha pubblicato la sua risposta all’articolo di vulture, che potete leggere qui. Un post che – se un po’ lo si conosce – dice molto più di quanto vorrebbe. Fa del victim blaming dicendo che – tutte – le persone che lo accusano sono probabilmente rimaste ferite dal suo non essere emotivamente disponibile (ergo: “volevano una relazione, io non volevo, quindi ora si vendicano”). Ricordo che le accusatrici non si conoscono tra di loro e hanno raccontato vicende molto simili. Ha poi detto di stare lavorando per migliorare (lasciando un po’ fumoso se si riferisca alla sua anaffettività o al contenuto delle accuse). E ovviamente che tutti i rapporti erano consensuali. D’altronde poteva forse dire il contrario in quella sede?
Io vorrei credergli, davvero. Vorrei credere che è tutto falso. Ma la conoscenza del mondo così com’è, la conoscenza della società che abbiamo, la risposta stessa che ha dato, mi portano ancora una volte a credere alle vittime.
Il massimo che posso arrivare a dedurre è che lui possa davvero non essersi reso conto che della problematicità del suo comportamento, della mancanza effettiva di un consenso che pensava di avere. Che in tutti i suo comportamenti ci sia colpa e non dolo. È un voler dare un enorme beneficio del dubbio, ma supponiamo di farlo anche perché in molti punti dell’articolo si parla di traumi che ha subito da giovane e del fatto che spesso si sia rifiuto di avere supporto psicologico. Ok. Anche fosse, resterebbe colpevole, con l’aggravante che a sessant’anni e forte di un potere che è andato in crescendo non si è mai fatto aiutare, ha sempre scelto la via più facile, quella garantita dal privilegio.
Sì. Credo alle vittime. Nonostante mi faccia male. Perché è giusto, perché bisogna imparare a farlo. Soprattutto quando si tratta di amici, parenti o idoli.
E per quanto riguarda le sue opere? Si apre un altro portone che ora non voglio sfiorare, ma che probabilmente verrà affrontato quanto meno in Polo Nerd nella prossima stagione. Per ora basti dire che la separazione arte/artista è un argomento che mi lascia in costante dicotomia.
Ma per oggi basta così.