Middlesex

Non è mai semplice parlare di un romanzo così acclamato e che ha addirittura vinto un Pulitzer. Il rischio, apprezzandolo, è di non aggiungere nulla a quanto detto da chi ti ha preceduto, e in caso opposto c’è la possibilità di essere letti come la voce che per forza vuole distinguersi, porsi fuori dal coro per partito preso.

Forse ancora più complesso quando, come nel mio caso, il libro ha luci e ombre che non mi permettono né di promuoverlo totalmente né di stroncarlo con soddisfazione.

Le premesse sono promettenti: Jeffrey Eugenides racconta, come fosse lui, la vita di Cal – nato Calliope – un uomo intersex nato con una mutazione nel gene che codifica la 5α-reduttasi, ovvero l’enzima che fa sì che il Testosterone sia attivo nel corpo: come risultato, Cal viene identificato e cresciuto come una ragazza fino all’adolescenza, quando la mancanza di sviluppo dei caratteri sessuali femminili e la comparsa di alcuni caratteri maschili farà scoprire la verità.

Approcciando il romanzo e senza aver volutamente approfondito il contenuto nel dettaglio mi sarei aspettato quindi un racconto della vita di Cal/Calliope, della sua scoperta, delle sue emozioni, della sua ricerca d’identità: cosa che avviene, ma a partire dalla metà di un libro di quasi 600 pagine.

Eugenides, infatti, non ha in realtà scritto un libro su Cal, ma sull’intera storia della sua famiglia, a partire dai nonni fuggiti dalla Grecia a inizio secolo, approfondendo a volte anche eccessivamente il dettaglio delle loro vite, della cultura di origine, delle difficoltà di adattamento nel nuovo mondo, della scena sociale e razziale degli Stati Uniti e di Detroit in quel lungo arco di vita.

Per buona parte del romanzo Cal è voce narrante e fin troppo onnisciente, dato che in più momenti si trova a raccontare i pensieri in fin di vita di persone morte prima che nascesse. L’effetto è dicotomico, da una parte abbiamo l’indubbio fascino di scoprire dettagli su una cultura e su un periodo storico, ma dall’altro c’è un costante senso di dubbio sul perché ci stia venendo raccontato tutto ciò che stiamo leggendo. In che modo influenzerà il resto della storia?

La risposta è: quasi per niente. O meglio: basterebbe la metà delle pagine per dare le basi necessarie alla seconda parte, solo che Eugenides non ha interesse alcuno alla sintesi. Lui vuole raccontare quelle vite, vuole avvolgersi in un linguaggio spesso pomposo e sovraccarico, e vuole prendersi tutto il tempo che ritiene necessario, che al lettore stia bene o meno.

E a molti lettori, da quello che ho potuto vedere, è stato bene, a me non lo so, perché ha finito per farmi perdere il legame con il protagonista, diventato più una sorta di tuttologo autoreferenziale che di elemento centrale della storia.

Quando poi si arriva alla seconda parte, alla vita di Cal/Callie, l’impressione è che ci siano forti sbilanciamenti nei tempi narrativi tra alcuni momenti e altri, non legati strettamente all’importanza che tali istanti dovrebbero avere all’interno della storia. In fondo quello che abbiamo non è tanto un racconto cronologico di eventi, ma un’estrapolazione di istanti con dettaglio, interesse e carica emotivi molti diversi tra loro.

Le scelte narrative di Eugenides – che, in quanto tali, possono piacere o non piacere ma sono sempre e comunque legittime – non hanno funzionato benissimo con me: decidere di fare alcuni nomi invece di altri suona forzato, ad esempio; certo, il romanzo vuole fingere di essere un memoir, ma allora i nomi celati dovrebbero essere molti di più: in questo modo, invece, la sensazione è di un vezzo fine a se stesso. La scelta di usare prima e terza persona a seconda dei momenti può essere vista invece come un modo per sottolineare come la Callie che sta venendo raccontata non sia lo stesso Cal che sta raccontando e funziona abbastanza bene, cosa che invece non accade (e, anzi, mi genera personale irritazione) quando c’è il passaggio dal passato remoto al presente nel racconto di eventi avvenuti nello stesso momento. Sia chiaro: è ovvio il motivo per cui viene fatto, il presente fornisce sempre un effetto di coinvolgimento e di azione più immediati, ma un passaggio così improvviso e netto non rientra nei miei gusti e finisce per farmi distaccare dal racconto in sé.

Ma, andando al punto più importante, come racconta Eugenides l’esperienza intersex? Ecco, ho seri dubbi al riguardo, soprattutto perché Eugenides NON è una persona intersex e – cosa che davvero mi lascia perplesso – non ha voluto parlare con nessuna persona intersex in fase di stesura del libro: ha deciso di leggere letteratura scientifica, ma di non interfacciarsi con chi davvero abbia vissuto l’esperienza, perché preferiva immaginare cosa sarebbe stato per lui. Ecco, in quest’ottica la presunzione di poter immaginare una vita così diversa senza essersi documentato con chi tale vita l’ha davvero fatta svuota sotto molti aspetti l’importanza del racconto di Cal. Può essere verosimile, può anche essere molto realistico, ma è pura immaginazione di un autore che non ha voluto farsi influenzare da esperienze reali. E il problema è che leggendolo con la sensibilità odierna, la cosa si percepisce: troppo in fretta Callie si decide a diventare Cal, troppo velocemente una crisi diventa una decisione, troppo facilmente la decisione stessa di dover scegliere. Inoltre la motivazione stessa della presenza di quella mutazione, che non spoilererò qui, mette in gioco una potenziale negativizzazione del tutto, una mostrificazione del personaggio centrale, che anche se non voluta esplicitamente arriva in vari momenti.

A leggere fino a qui sembra che gli aspetti negativi siano prevalenti, ma la realtà è che tenevo a sottolineare ciò che più mi ha fatto storcere il naso davanti a un libro che, pubblicato più vent’anni fa, ha avuto comunque l’enorme pregio di parlare di persone intersex, gay e – in misura minore – transessuali, di puntare il dito su pratiche mediche ben più che opinabili e di raccontare il concetto di identità di genere separata dai caratteri sessuali fisici.

Da questo punto di vista si tratta di un romanzo che non può essere sottovalutato. Ma i difetti, con gli occhi più smaliziati di oggi, ci sono eccome, senza conta che lo stile di Eugenides può essere amato o mal digerito e – al riguardo – ci si può fare poco.

Lo consiglierei, comunque, a chi ama le saghe familiari e voglia approcciare una storia diversa dalle solite, quanto meno nell’identità del e dei protagonisti.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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