Captive State

Beware the greek bearing gifts

Il filone di fantascienza dell’invasione aliena è, o almeno è percepito come, uno dei più sfruttati su ogni media: dai racconti ai libri, dai videogiochi alle serie tv fino, ovviamente, ai film.

Scomodando anzitutto il più che classico Guerra dei mondi di H.G. Wells, passando al poco conosciuto capolavoro Ultimatum alla Terra o a film più rumorosi come Independence Day, per non parlare delle decine di anime con cui soprattutto quelli della mia generazione sono cresciuti: fossero essi i Vegani di Goldrake/Grendizer, gli Akron di Daltanious o i Gamilas di Star Blazers/Space Battleship Yamato, molti di noi hanno visto il proprio immaginario riempirsi di razze più o meno aliene che giungevano sulla Terra per sterminarci, prendere possesso del pianeta e altre gradevoli amenità del genere.

Inutile dire che l’utilizzo di questo particolare topos viene incontro a varie esigenze: due fra tutte il fornire un avversario esterno che tutti possiamo percepire come tale (e, quindi, non rischiare che alcuni spettatori empatizzino col nemico) e il dare la sensazione di lotta senza speranza che solo alla fine (forse) si risolverà a favore degli umani.

Ma, come sono sempre solito dire (e chi segue la mia stanza del venerdì sera su Clubhouse lo sa bene), la fantascienza non è un genere ma un’ambientazione che si può utilizzare per qualunque tipo di storia, dalle più leggere alle più impegnative.

Captive State – film del 2019 di Rupert Wyatt – fa esattamente questo, utilizzando l’idea dell’invasione aliena per raccontare una storia di resistenza in modo più realistico di quanto avesse già fatto – ai tempi – la cara vecchia Visitors.

Saltando i minuti iniziali che fanno da flashback introduttivo, la storia si svolge nel 2025. Da sei anni la Terra è stata invasa da una razza aliena – amabilmente soprannominata scarafaggi – che non ha distrutto gli esseri umani, ma li ha scalzati nel governo del pianeta, tanto da farsi chiamare legislatori.

Un’oppressione a tutti gli effetti costruita in modo tale che gli oppressi siano felici (almeno alcuni) nel loro ruolo e non si rendano conto delle vere motivazioni dei sedicenti benefattori. O, meglio, che se ne lavino le mani finché le vittime sono altri e finché ci sono benefici a tempi brevi.

In sostanza, nell’arco di sei anni la razza umana è ormai divisa tra oppressi sempre più oppressi, privilegiati ancora più tali, collaborazionisti, ex-governanti vendutisi ai nuovi capi e – ovviamente – gente che sparisce, mentre il pianeta viene sempre più consumato dai nuovi arrivati.

Captive State racconta il tentativo di resistenza di pochi individui, di quello che gli alieni e i collaborazionisti chiamerebbero terrorismo, e lo fa nel modo più realistico possibile. Gli alieni si vedono, ma sempre in modo distaccato: loro sono troppo, sono esterni, sono tanto lontani da potersi permettere di sfruttare – quasi sempre – gli umani per fare il lavoro più sporco; non per niente le forze di polizia locali non sono aliene ma umane e questo è uno degli elementi cardine di realismo dell’intera storia: uno dei protagonisti è infatti il personaggio interpretato dal mai troppo lodato John Goodman; William Mulligan è capo della polizia di Chicago, un ruolo che lo porta a cacciare ogni forma di resistenza in nome e per conto dei legislatori. Un traditore della razza umana? Sicuramente viene da pensarlo, eppure nella sua ottica si tratta del modo migliore per proteggere la propria città: nel momento in cui il rischio di rappresaglie è tale da rischiare lo sterminio di quartieri o città, il cercare di non alimentare contrasti può essere visto come un modo – opinabile quanto vogliamo – di proteggere i più deboli.

Ma Captive State non è un film che si accontenta di caselle e facili definizioni: impareremo che non tutto è come sembra e che ci sono decine di modi diversi per lottare. Lo faremo seguendo il piano della resistenza, con un avvicendamento di personaggi che non sempre aiuta a empatizzare col singolo e che, proprio per questo motivo, in questo caso ha maggior valore; quella che ci viene raccontata non è la storia di uno o più individui, ma di una cultura assoggettata da un’altra, con tutto ciò che ne consegue.

Invasione, oppressione, resistenza e ancora propaganda e sorveglianza attraverso la tecnologia sono solo alcuni dei temi toccati da un film che resta oscuro, disperato, claustrofobico.

Possiamo non legare con nessuno dei personaggi eppure non si potrà non trattenere il fiato durante l’esecuzione del piano né provare momenti di entusiasmo o di sconforto nelle varie fasi dello stesso.

“Beware the greek bearing gifts” viene detto più volte, citando la frase originale di Virgilio “Timeo Danaos et dona ferentes”: i legislatori sono arrivati sulla Terra portando il dono del loro governo. Ma siamo sicuri che siano gli unici greci da temere in questa storia?

Captive State non è un racconto di alieni, è una storia di umanità e come tale andrebbe guardato.

Forse non un capolavoro, con difetti più o meno evidenti, ma di sicuro un buon approccio a una narrativa che troppi credevano non avesse altro da dire.

A oggi potete vedere Captive State in streaming a pagamento su Amazon Prime Video, AppleTv, Chili o in abbonamento su Tim Vision. Oppure potete comprarlo al link sottostante.


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Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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