Racconto: Storia di un bosco

Due o tre mesi fa, su Instagram, avevo chiesto a chi mi segue suggerimenti di scrittura, per trovare nuovi spunti con cui alimentare questo spazio. Ne sono arrivati alcuni, ma nel frattempo varie situazioni e – inutile negarlo – un bel po’ di offuscamento mentale me li hanno fatti lasciare un po’ da parte. Oggi cerco di rompere il ghiaccio pubblicando il primo risultato: era un racconto nato da un topic suggerito da una persona che ora non ha più un ruolo nella mia vita e non credo neanche lo leggerà. Dovesse farlo la ringrazio comunque, com’è giusto che sia, per lo spunto. Il topic era esclusivamente il titolo stesso: Storia di un bosco.

È il primo racconto che scrivo dopo non so quanto, per cui spero di non essere troppo arruginito, ma se vorrete darmi qualche riscontro mi farete solo piacere.


Storia di un bosco

Quando siamo nati?
Il tempo è un concetto così strano per noi che siamo insieme e separatamente.
Ci sono parti di noi germogliate ieri che saranno alte e robuste solo tra innumerevoli stagioni. Altre sono tornate alla terra, cibo delle nuove generazioni.
Siamo giovani, antichi, nuovi, vecchi, esperti, curiosi.
Nati oggi, ieri, secoli fa e domani.
La nostra non è una storia sola. Sono le migliaia di intrecci nati da ogni seme trasformatosi in tronco, ogni animale nato, vissuto e morto, ogni goccia di pioggia fermatasi tra le foglie o giunta al terreno.
Non sappiamo raccontarla. O forse voi non sapreste ascoltarla, perché il nostro racconto sarebbe di suoni e umidità, di odori e colori, di vibrazioni e silenzio, di pioggia, neve, fango e sole, di caldo, freddo e umidità, di funghi, corvi, lucertole e ragni.
E umani, ovviamente.
Come quei due, quelli che stanno girando da un’ora.
Guardateli.
Lei ride, non è mai stata qui, la riconosceremmo.
Dall’aspetto vi assomigliate un po’ tutti, ma ognuno di voi ha un suo odore, un modo di camminare sul nostro terreno, di occupare il nostro spazio. Se vi guardassimo e basta sareste tutti uguali, ma così, così non c’è uno uguale all’altro.
No, lei non è mai venuta qui. Ride. Ci piace, non sta urlando. Odiamo quando urlate. Disturbate i nostri amici più timidi. E poi se qualcuno venisse a casa vostra non invitato e iniziasse a urlare come la prendereste?
Appunto.
Casa.
Strana questa parola.
L’abbiamo imparata nel tempo, sappiamo che per voi è importante, ma non ci è del tutto chiara.
Abbiamo capito che ha qualcosa a che fare con quelle stranezze squadrate che vediamo in lontananza, ma la curiosità di come siano dentro rimarrà sempre con noi. Sono rifugi per umani, però. Come noi diamo rifugio ai nostri ospiti. Questo l’abbiamo capito. Ma tanto di voi non sappiamo se non per quello che dite o vivete qui, in mezzo a noi.
Eppure vi conosciamo.
Alcuni di voi sono nostri amici. Loro lo sanno e noi lo sappiamo.
Vengono a trovarci, camminano delicati e trovano il loro angolino.
C’era la scrittrice.
Aveva trovato un tronco scavato da un fulmine. Era vivo, era unico e lei aveva deciso subito che sarebbe stato il suo luogo sicuro e lui, ve lo possiamo dire, ne fu felice. Non era più in grado di crescere molto, di rendersi visibile con la sua chioma. I rami crescevano, le foglie anche, ma radi e a fatica. Eppure lei l’aveva visto e ne aveva amato la sua particolarità e il tronco l’aveva amata anche solo per quello.
Fu tante stagioni fa.
Lei un giorno non tornò più. Prima o poi capita sempre. Siete così decidui e fragili.
Il tronco, di suo, pian piano smise anche di metter quelle poche foglie e seccò. No, non fu per tristezza. La tristezza è per gli umani. Ma gli mancò la sua amica, quello sì.
E c’era il disegnatore. Oh, lo ricordiamo bene. A lui piaceva il laghetto, quello che trovate vicino al nostro bordo occidentale. Adorava il riflesso della luce al tramonto e veniva qui appena poteva, un’ora prima e fino a che non vedeva più nulla.
Trovava sempre qualcosa di nuovo da disegnare: cuccioli umani che giocavano, anatroccoli che imparavano a nuotare, il riflesso stesso.
Quelli di noi più vicini, non lo neghiamo, sbirciavano. Siamo curiosi di tutto ciò che è nuovo. Sbirciavano e poi ci trasmettevano ciò che vedevano. Le immagini, sì, ma non solo: soprattutto le vibrazioni che generavano.
Era bravo.
Ci manca.
Ma in tanti altrettanto bravi siete passati di qua. Voi umani sapete essere incredibili e quando qualcuno come loro diventa nostro amico, ci viene a trovare, ci ricordiamo di quanto speciali possiate essere.
Così come quando venite qui ad amarvi. Che belli siete. A volte emozionati e maldestri, altre tanto passionali da ricordarci alcuni dei nostri ospiti più pelosi. Così assetati di tornare a noi e di vivervi in noi. Forse è allora che vi preferiamo. Siete in noi. Siete noi. Siete vivi. E poi è così divertente vedere in quante forme riuscite a vivere il vostro amarvi. Un uomo e una donna. Due uomini. Due donne. Più uomini e più donne. Siete belli. Siete vivi. E in quel momento siete noi.
Eppure.
Eppure siete capaci di tanta bruttezza.
Quanti di voi sono sepolti in noi.
Sono diventati parte di noi.
Non capiamo.
Vita e morte sono un tutt’uno, lo sappiamo, ma non capiamo alcune vostre morti.
Non hanno senso.
Non sono vecchiaia.
Non sono fame.
Sono rabbia e freddezza e insensibilità.
Siete strani voi umani, sì.
Belli e orribili.
Magici e cruenti.
Parte di noi e pronti a distruggerci.
Capaci di orrori e di dolcezza.
Come quei due.
Sono ancora qui.
Guardateli.
È uno di quei giorni in cui l’umidità dà l’impressione che piova dentro di noi, ma sembra non importi.
Lui cerca di mostrarsi esperto del nostro mondo. Della nostra storia. Divertente come pensiate di conoscerla. Esilarante sentirla raccontare da voi. Tante imprecisioni. Cose mai accadute e altre andate esattamente così.
Ma non importa: lui parla, fin troppo.
Vuole fare colpo.
Anche questo l’abbiamo visto migliaia di volte. Come siete fragili quando in gioco è il vostro cuore. Eccolo, lo sentiamo.
Vibra nel terreno fino a noi.
Tu-tum… tu-tum… tu-tum…
Sentiamo il suo cuore battere. È innamorato. E impacciato. Vorrebbe colpirla con le sue parole, senza comprendere che se mai lo farà sarà per ciò che è. Ma lei ride, ascolta, spesso lo sfotte bonariamente e ridono insieme, lui nervoso ma ogni istante un po’ meno. La loro risata si fonde al vento umido tra i nostri rami. Suona bene, questo è certo. Vibra con noi. Vibrano con noi.
Lei si ferma. Sorride e lo guarda. Rabbrividisce per colpa nostra, ormai è tardi, umido, freddo per i vostri standard.

– Hai freddo? Vuoi il mio giubbotto?

Lei lo guarda un po’ divertita e un po’ scrutandolo.

– Sì, un po’, ma no, non c’è bisogno. Torniamo? Possiamo prepararci qualcosa di caldo. Magari guardiamo qualcosa.

Lui sostituisce la delusione del rifiuto con la gioia della proposta.
Si incamminano veloci, stretti nei rispettivi giacconi. Lui continua a parlare, non smette mai, riusciamo a sentire la sua voce dissolversi piano.
Ed è silenzio. Il nostro, quello pieno di suoni.
Siamo di nuovo qui, soli senza esserlo, completi in noi eppure curiosi.
Come proseguirà la loro serata?
E le loro brevi vite?
Rivedremo mai quei due?
Insieme o separatamente?
O resteranno memorie come il disegnatore, la scrittrice, i tanti lettori e gli ancor più amanti?
Non lo sappiamo, non possiamo saperlo.
E, in fondo, non ci interessa davvero.
Sono passati in noi, che eravamo, siamo e saremo.
Sono già parte della nostra storia.



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Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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