Doctor Who: 11×07 Kerblam!

Se dovessimo fermarci a un elenco di caratteristiche necessarie per ottenere un bell’episodio di Doctor Whoprobabilmente Kerblam! sarebbe annoverabile tra i migliori non solo della stagione corrente, ma anche rispetto a molte delle precedenti. C’è una minaccia nuova che rientra in quelle innocue e mortali che da sempre sono caratteristica della serie. C’è un villain non del tutto prevedibile. Ci sono robot servizievoli e inquietanti. C’è un ottimo cast di supporto. C’è un Dottore sempre più sicuro di sé. C’è addirittura un ottimo equilibrio nella gestione dei companion, che finora era oggettivamente mancato.

Il problema, però, è che una ricetta non è fatta solo dagli ingredienti che la compongono, bensì anche dal modo in cui questi vengono miscelati, dalla sequenza delle operazioni fatte, anche dal tempismo stesso dei singoli gesti: se non è tutto perfetto si ha solo una buona base di ingredienti, ma il piatto finale non è ciò che ci si sarebbe aspettati.

Questo settimo episodio ha molti aspetti positivi ed è innegabilmente quello che mostra un maggior legame col periodo più Ecclestoniano del Dottore, ma le stesse caratteristiche che ci avevano fatto storcere il naso in quelli che l’hanno proceduto sono qui accentuate al punto da rischiare di sovrastare il tanto di buono che è stato fatto dallo scrittore Pete McTighe nel suo primo lavoro sulla serie.

Ormai l’abbiamo detto e ripetuto allo sfinimento: l’era Chibnall ha come firma identificativa l’esplicita volontà di trasmettere messaggi di denuncia sui più svariati argomenti, focalizzando praticamente ogni episodio su un tema diverso. In Kerblam! la lente di ingrandimento si ferma su Amazon su una società commerciale delle dimensioni di un pianeta e con un magazzino che occupa un’intera luna, i cui dipendenti sembrano vivere poco al di sopra della soglia minima di tolleranza. Tanti saluti alle metafore a favore di situazioni talmente esplicite e didascaliche da sembrare la morale alla fine di un episodio di He-man.

Una delle regole più importanti della narrazione, in qualunque formato, è il mai troppo ribadito show don’t tell, ovvero la regola che indica come ben costruito uno storytelling che non ha bisogno di dire esplicitamente allo spettatore ciò a cui sta assistendo, facendolo comprendere grazie alle situazioni e alle dinamiche della storia: questo episodio ci mostra come quando la regola viene rispettata tutto funzioni bene e i personaggi riescano a risaltare e funzionare, mentre quando si forzano le spiegazioni nei dialoghi e nelle situazioni si finisce per irritare più che farsi seguire.

Si prenda ad esempio lo stesso Dottore. Nella scena in cui fa la conoscenza di Kira abbiamo una scrittura che mette in risalto le caratteristiche dei personaggi senza che debbano esserci spiegate. La reazione di Tredici al comportamento di Slader fornisce più informazioni sullo status della protagonista di quante ne siano state dati in molti altri momenti e il suo dialogo con la stessa Kira aggiunge sfumature ad entrambe, facendo affezionare velocemente lo spettatore alla comprimaria.

Quando, invece, abbiamo un dialogo/monologo in cui lo stesso Dottore spiega al vero villain il motivo per cui la sua lettura sulla tecnologia è sbagliato, ecco che si torna all’effetto-spiegazione che tante volte abbiamo citato negli articoli precedenti.

L’identità del Dottore è sempre più definita e la comparsa del Fez a inizio episodio sembra sancire definitivamente (ed era anche ora) il passaggio dalle vecchie incarnazioni alla nuova; è importante, sotto questo punto di vista, che il confronto col passato raggiunga un regime minimo e non sia, invece, una sorta di richiamo costante, altrimenti si rischia di ottenere – nuovamente – un effetto opposto a quello voluto: continuare a rimarcare le differenze col passato può sembrare, se tirato per le lunghe, un modo per cercare conferme dallo spettatore, come a dire “vedete? Questo è sempre il Dottore, anche se abbiamo cambiato praticamente tutto”. Diamo per assodato che questo sia il Dottore e, anzi, aggiungiamo che questo Dottore ci piace molto: ora, per favore, fateci esclusivamente godere le sue avventure senza rimarcare che prima era altro. Lo sappiamo, diamolo per scontato. Però sì, Tredici col Fez è stata una visione divertente.

I confronti sono poi pericolosi, perché portano anche a chiedersi il motivo di certe reazioni del Dottore, ad esempio verso la morte di Charlieche viene accettata con meno scrupoli di quanto ci saremmo aspettati, indipendentemente dalla fretta e dalle colpe del personaggio. Non è la prima volta che la bussola morale di Tredici sembra funzionare in modo altalenante: pur rientrando nelle caratteristiche della nuova incarnazione, c’è in certi momenti l’impressione di una non totale coerenza tra la sua volontà di salvare chiunque e la gestione delle perdite più o meno inevitabili.

Ci sarebbe anche qualcosa da dire sulla possibilità di materializzazione di un robot nel Tardis mentre si trova in viaggio, ma eviteremo di aggrapparci a questo tipo di argomenti.

Il plot twist relativo all’identità del villain è sicuramente un punto di forza dell’episodio, che ribalta le aspettative dello spettatore, ma nell’insieme si ha l’impressione di un tentativo di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, denunciando esplicitamente un certo di tipo di corporazioni e poi svelando come villain uno dei personaggi potenzialmente vittima delle stesse, opportunamente trasformato in un terrorista anti-tecnologico. Il meccanismo funzionerebbe bene, non ci fosse stata questa forte forma di denuncia che, sommata al cambio di prospettiva, spiazza e infastidisce. Molto meglio, proprio perché sottile e inserito nel dialogo, il cenno finale in cui si contrappone il mese di fermo dell’azienda alle due settimane di ferie retribuite concesse ai lavoratori.

Abbiamo steso finora un elenco di demeriti dell’episodio non perché, nell’insieme, sia stato sgradevole (e le reazioni generali sono anzi ottime), ma perché spiace vedere buoni elementi oscurati da problemi evitabili. E di aspetti positivi, dicevamo all’inizio, ce ne sono parecchi, a partire dal Team Tardis. Mai come in questo episodio si ha un ottimo equilibrio non solo dello screentime dedicato ai tre companion, ma anche della loro effettiva utilità nella gestione delle vicende: Yaz mette ben a frutto il suo addestramento come poliziotto e la sua empatia, Ryan sfrutta la propria esperienza lavorativa e lo stesso Graham, confermandosi spirito del gruppo, aggiunge un mix di empatia e ironia che ben funzionano nell’insieme. Da capire, riguardo a quest’ultimo, il significato della scena finale, che sembra troppo buttata lì per non avere una motivazione. Un plauso, poi, al cast dei comprimari, alcuni in prestito da Broadchurch, che non sfigura nel confronto coi protagonisti.

La narrazione è un altro aspetto più che soddisfacente: ben serrata, con un buon sbilanciamento verso l’azione e uno spazio molto più ampio del solito al percorso di scoperta del mistero della settimana. I ritmi sono buoni, le battute più rare ma ben inserite, i dialoghi più fluidi.

– Vi siete mai nascosti in un pannello a muro? No? Allora non avete vissuto.

In conclusione possiamo dire che questa stagione sta raggiungendo un ottimo livello di maturità complessiva e che quando la scrittura non è affidata al solo Chibnall ci sono spunti e soluzioni interessanti che ben si legano al passato del personaggio pur portando una dovuta innovazione: se, poi, la non sottigliezza è una firma che può piacere o non piacere (e che a noi non convince, come si sarà capito), necessitano ancora di correzione (o adeguata spiegazione) alcuni apparenti svarioni di caratterizzazione o di trama, imputabili – si spera – a un rodaggio forse ormai un po’ lungo.

Su tutto, però, continua a svettare l’interpretazione di Jodie Whittaker, che in questo episodio – abbandonati gli tsunami di parole di alcuni dialoghi passati – restituisce un Dottore sicuro, leggero al momento giusto e ben determinato quando serve, a indicare quanto ormai il personaggio le sia perfettamente calzante.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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