Ristampa N. 12 (nonché ultima): Jekyll & Hyde Inc.

Prima di recuperare quest’ultima ristampa avevo pensato “beh, dai, questa è recente, di pochi mesi”, poi ho guardato la data: 10 ottobre 2015.
Poco prima che iniziasse tutto, che io scoprissi la malattia di Zen, che le cose precipitassero su altri fronti.
Ricordo ancora il giorno in cui l’ho scritto: ero a Torino, seduto a un tavolino del Parco del Valentino, in una tiepida giornata autunnale.
È un racconto autobiografico nel sentire se non negli eventi (al netto di metafore) e gli sono abbastanza affezionato.
Con questa, dicevo, si chiudono le ristampe: non so quanto siano state gradite, se dovessi giudicare dai commenti direi ben poco, ma per me è stato un modo di tirare le file su quanto scritto negli anni dal punto di vista puramente creativo, romanzo a parte. È interessante vedere l’evoluzione dello stile, sempre che ci sia, ma anche degli argomenti e del modo di raccontarli, così come rendersi conto del parallelo tra momenti nella vita e nella scrittura.
Bla bla bla, diranno alcuni. Al solito, pazienza.
Vi lascio alla (ri)lettura.

Jekyll & Hyde Inc.

Jekyll aveva trascorso anni pensando di comandare.

O meglio, di essere solo, che si può pensare di comandare solo se c’è qualcuno su cui farlo.

Jekyll era stato a lungo convinto di essere solo, quindi.

Lui imparava, lui decideva, lui provava sentimenti.

Lui.

Lui.

Lui.

Non ricordava quando si rese conto di essersi sbagliato.

Sapeva solo che un giorno si trovò in una stanza chiusa, con un lettino e una finestra.

Aveva guardato fuori per scoprire che qualcun altro aveva preso il suo posto in plancia, cercando di guidare.

Guidare, che parola grossa, meglio dire che stava agendo.

In qualche modo, stava agendo.

Stava facendo ciò che Jekyll non avrebbe mai fatto.

Non parlava quasi mai, ma si faceva capire.

Non mangiava, sbranava.

Non chiedeva, si appropriava o cacciava.

Non amava, desiderava.

Jekyll aveva urlato, strepitato, chiesto di essere liberato, ma l’altro rispondeva solo a grugniti, quando si degnava.

La porta non era chiusa a chiave, era solo troppo pesante da aprire.

L’altro l’aveva chiusa spingendola da fuori e lui era troppo debole, troppo stanco per aprirla.

Avrebbe voluto continuare a urlare fino a farsi liberare, ma qualcosa gli aveva detto che non sarebbe servito a nulla.

Aveva deciso di sfruttare quel lettino per riposare, ritrovare le forze, nonostante il rumore che faceva continuamente l’altro.

Ci vollero mesi.

Nutrirsi non era stato un problema: per quanto grezzo, l’altro sembrava sapere istintivamente come e quanto alimentarlo; certo, non si trattava di quei piatti raffinati a cui si era abituato, ma era cibo nutriente e se lo faceva andare bene.

Anzi, si sarebbe vergognato ad ammetterlo con chiunque, ma certe volte quasi lo preferiva.

Mesi.

Poi una notte si svegliò di soprassalto.

Si era tanto abituato al rumore che la sua assenza l’aveva destato.

Si era alzato, avvicinato a quella maledetta porta per origliare.

Silenzio.

Istintivamente aveva di nuovo provato a spingerla.

Si era aperta.

Era uscito in quel corridoio buio e aveva visto accanto alla sua porta una fila di altre, tutte uguali, non fosse per il fatto che sembravano non essere mai state aperte.

Tutte tranne una, quella più vicina.

Ci si era avvicinato con circospezione, trattenendo il respiro, e aveva sbirciato dentro.

L’altro era lì, in una stanza che sembrava uguale alla sua, tranne per il caos e l’odore ferino.

Era la prima volta che lo vedeva.

Si era aspettato qualcuno simile a lui (ok, magari con meno stile) e invece rimase senza fiato dal suo aspetto.

Era enorme, non portava vestiti e sembrava la sua pelle fosse coperta di scaglie, come quella di un coccodrillo.

Russava.

Jekyll non ci aveva pensato due volte: aveva spinto la porta fino a chiuderla (incredibile quanto gli era stato facile) ed era tornato in plancia col cuore in gola.

C’era voluto così tanto per riparare ai danni che Hyde aveva fatto.

Alcuni erano irrecuperabili, altri rattoppabili con molta pazienza.

Era come se un bulldozer fosse passato su quasi ogni aspetto della sua vita.

Ricordava ancora la sensazione: gli era sembrato di trovarsi davanti a uno strapiombo su cui non era voluto salire e di essere costretto a rimanere fermo lì o lanciarsi.

Si era lanciato e, di nuovo, non avrebbe ammesso con nessuno che lo aveva trovato liberatorio.

Si era sentito libero e vivo.

Trascorsero giorni, settimane, mesi.

Jekyll costruiva, lavorava, godeva di ciò che riusciva a creare e vivere, senza pensare mai alla creatura, Hyde.

Ma Hyde si era svegliato non molto tempo dopo e non era nel suo stile rimanere in silenzio.

Quando Jekyll era stressato, la rabbia di Hyde trasudava e usciva all’esterno.

Quando Jekyll era spaventato, la sua paura faceva scatenare in Hyde l’istinto di fuggire o lottare.

Hyde era lì e non voleva più dormire.

Jekyll imparò a riconoscerlo, a capire quali pensieri erano suoi e quali di Hyde.

Lo combatté con tutto se stesso, spostando parte delle sue energie in quella lotta, distogliendole dalla vita esterna.

Una notte, mentre Hyde dormiva, entrò in silenzio nella sua stanza, deciso a ucciderlo.

Lo soffocò con un cuscino.

Pensava sarebbe stato più difficile.

Jekyll tornò alla sua vita contento come mai.

Hyde era morto, lui era in controllo come avrebbe sempre dovuto essere.

Poco importava che, col tempo, avesse capito che la voce di certe sue passioni era di Hyde, anche se ancora non ne conosceva l’esistenza.

Si convinse che a lui, di quelle passioni, non era mai importato molto.

E poi quella rabbia, quegli istinti, quel reagire agli odori erano così spaventosi.

Rabbrividì al pensiero e cercò di dimenticare quel mostro scaglioso una volta per tutte.

Ma le energie che aveva sprecato per combattere Hyde l’avevano indebolito più del dovuto e la vita era andata avanti come sempre.

Difficoltà.

Dolori.

Fastidi.

Jekyll cercò di tenere testa a tutto, ma con sempre più stanchezza, con meno convinzione.

Qualcosa gli mancava.

Quando qualcosa andava storto non si arrabbiava, ma si infastidiva in silenzio.

Quando provava un sentimento si convinceva non ne valesse la pena.

Quando incontrava un bivio sceglieva sempre quello pianeggiante.

Quando provava un dolore lo faceva accumulare, non riuscendo a sfogarlo.

Si indebolì giorno dopo giorno.

Si ingrigì.

Cominciò a svegliarsi solo per abitudine.

Poi accadde.

Non ebbe bisogno di addormentarsi, quella volta.

La porta di Hyde esplose.

La creatura, molto meno morta di quanto Jekyll pensasse e molto più arrabbiata di quanto potesse desiderare, travolse ogni cosa gli capitasse davanti.

Quando si trovarono faccia a faccia, Jekyll svenne.

Si svegliò tempo dopo.

Quella volta non ebbe bisogno di capire cosa fosse successo.

Hyde gli aveva reso il favore.

Si alzò, spinse la porta, uscì dalla stanza e lo trovò, prevedibilmente, addormentato.

Chiuse la porta come aveva già fatto in precedenza e tornò al suo posto.

Hyde si era scatenato.

Jekyll non riconosceva quasi nulla di ciò che lo circondava.

Il mostro aveva distrutto, sbranato, cacciato.

Aveva vissuto più di quanto lui avesse fatto in tutti quei mesi.

Jekyll aveva provato di nuovo lo stesso senso di sgomento della volta precedente, ma con un nuovo retrogusto.

Invidia.

Hyde aveva vissuto, Jekyll aveva finito per sopravvivere.

Ma Hyde, vivendo, distruggeva e consumava fino a che non rimaneva nulla, non era capace di fare diversamente.

Jekyll costruiva, ma non sapeva assaporarne il risultato.

Trascorse notti insonni a cercare di accettare ciò che aveva capito, poi prese una decisione.

Tornò alla stanza di Hyde, la aprì e portò da mangiare alla creatura.

Hyde sembrò non fidarsi all’inizio, ma poi prese il cibo dalle sue mani e si sedette per terra a mangiarlo.

Divorarlo, sarebbe stato più corretto dire.

Jekyll lo osservò con un misto di disgusto e ammirazione, poi si sedette sul letto e gli parlò.

– Abbiamo provato a comandare entrambi. Non funziona. Se andiamo avanti così finiremo per distruggerci. Dimmi cosa vuoi.

La creatura lo aveva guardato con gli occhi di un predatore.

– Fame. – aveva ringhiato con fatica.

– Stai mangiando. Posso portartene ancora.

Hyde aveva scosso la testa, sembrava schifato dal fatto che Jekyll non capisse.

– Fame. – ripeté guardando fuori dalla finestra.

Poi una sensazione aveva investito Jekyll.

Fame.

Ma non di cibo.

Di istinti.

Di passione.

Di sesso.

Di amore.

Di rabbia.

Tutto ciò in cui Jekyll non sapeva come muoversi.

Aveva sorriso, per la prima volta da tempo.

Erano trascorsi anni da quell’incontro.

Avevano imparato a convivere.

Jekyll guidava, ma la porta di Hyde non si era più chiusa.

Jekyll prendeva le decisioni di ogni giorno, ma aveva scoperto che chiedere aiuto ad Hyde era spesso molto utile.

Quando scriveva, Hyde aggiungeva particolari e immagini a cui Jekyll non aveva mai pensato.

Incanalare la rabbia di Hyde durante un litigio o una discussione gli permetteva di cavarsela molto meglio: Hyde prendeva le frustrazioni di Jekyll, le masticava e ne faceva la propria forza.

Per non dire di quanto fosse utile Hyde nell’intimità.

La cosa che più lo faceva impazzire era come Hyde provasse istintivamente attrazione o repulsione per altri individui e non sbagliasse mai o quasi: Jekyll aveva provato innumerevoli volte a non dargli retta, a cercare prove, a dare possibilità (o a non darle). Niente, la maggior perte delle volte, alla fine, Hyde aveva ragione.

E di solito faceva una sorta di inquietante ghigno per sottolineare la cosa.

Jekyll odiava quando succedeva.

Non era certo tutto rose e fiori, ovviamente.

Hyde era ancora convinto di saper guidare e, quando Jekyll era stanco, a volte ci provava.

Per fortuna Jekyll aveva imparato ad accorgersene e tenerlo a bada, ma i risultati di quei pochi istanti erano state litigate imbarazzanti, urla, a volte anche una mezza rissa che non furono certo facili da rimediare.

Per non parlare di una o due cene romantiche non finite esattamente nel modo migliore.

Ma erano diventati soci.

Amici, avrebbe osato dire.

L’assenza di Hyde ora gli sarebbe stata intollerabile, come quella di un arto.

Con più tempo ed energie a disposizione, Jekyll aveva anche iniziato a osservare le persone intorno per capire se la loro fosse una situazione eccezionale.

Intuì che, anzi, la loro fosse quasi idilliaca.

Vedeva dei “Jekyll” in giro che non avevano mai fatto uscire i loro Hyde, finché non era stato troppo tardi: in alcuni casi la creatura della situazione aveva distrutto tutto definitivamente, altre non era riuscito a uscire dallo stadio larvale ed era morta.

Vedeva persone che probabilmente avevano molte più porte aperte delle sue due e si chiedeva come facessero a gestirle tutte.

Vedeva “Hyde” in circolazione che avevano probabilmente sbranato il loro Jekyll e si capiva fin troppo bene. Anche dall’odore che emettevano, volendo.

Lui era stato fortunato.

Collaboravano.

Hyde non si era neanche lamentato quando aveva smesso di mangiare carne, anche se ogni tanto sognava un hamburger sanguinolento.

Mentre pensava a tutto questo, Jekyll sorrise con amarezza.

Amava molto guidare quella sorta di associazione, ma c’era un prezzo da pagare.

C’erano traumi che solo lui poteva assorbire.

Delusioni.

Tradimenti.

Scelte dolorose.

Ferite dell’animo.

Ciò che lo toccava in quei piaceri e in quelle emozioni che Hyde non capiva e non avrebbe potuto capire.

Jekyll non poteva condividere anche quelli con la sua controparte: ci aveva provato, ma la reazione era stata quella di cercare cibo, sesso, lotta o tutte e tre le cose combinate in modo più o meno originale.

No, doveva proteggere Hyde da quei dolori che non poteva comprendere.

Doveva proteggere entrambi.

Così aveva iniziato ad accusare i colpi.

Una volta.

Due.

A un certo punto aveva perso il conto.

E Hyde sentiva comunque il riflesso di quel dolore.

Hyde chiedeva di poter reagire.

Hyde scalpitava.

Jekyll dovette socchiudere la sua porta, per ascoltarlo un po’ meno.

Non volevo chiuderlo, Hyde era suo amico, ma non poteva neanche lasciarlo scatenare.

Ma Hyde voleva intervenire e Jekyll si stancava anche per quello.

– Fidati di me, devo occuparmene io – gli chiedeva implorandolo.

Ma Hyde non ascoltava.

Fuga o sangue.

Sesso, cibo, lotta.

Dammi qualcosa.

Non gli bastava stare in piedi, voleva camminare.

Correre.

Saltare.

Dilaniare.

Colpire.

Fare qualcosa.

Ma Jekyll non si fidò e quella sera chiuse la porta di Hyde per poi andare in plancia, da solo dopo quella che sembrava una vita.

Si sedette, sfinito.

Ci volle poco perché la porta esplodesse di nuovo.

Jekyll sospirò.

Era troppo debole per alzarsi e lottare.

Lo aspettò.

Hyde arrivò veloce.

Lo guardò con rabbia, come un predatore troppo a lungo trattenuto.

– Non ce la faccio più. Fai quel che devi. – gli disse Jekyll sospirando.

Hyde si avvicinò minaccioso.

Allungò un artiglio.

Lo sfiorò sulla guancia.

Poi abbassò le possenti braccia e lo sollevò.

Lo portò nella sua stanza.

Jekyll aprì gli occhi senza capire perché fosse ancora vivo.

Lo sguardo di Hyde era cambiato.

C’era una luce che Jekyll non conosceva, non in lui.

Apri le labbra scagliose.

– Amico. Riposa. Poi torni.

Si voltò e si diresse verso la porta.

– Hyde! – tossì Jekyll.

La creatura si fermò.

– Sarò attento. – ringhiò.

Jekyll annuì.

– Per favore. Niente carne. – disse Jekyll, la voce impastata di debolezza.

Hyde rispose sbuffando e annuendo.

Si allontanò lasciando la porta aperta dietro di sé.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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