213. Del perché sono una pessima persona
Una premessa che dovrebbe essere sempre presente in ogni mio post, ma che oggi voglio ribadire a maggior ragione: quel che scrivo sono mie opinioni. Non si tratta di verità assolute, né di sentenze. Pure e semplici opinioni e sensazioni personali con le quali è legittimo non concordare.
Seconda premessa: per una volta non mi farò problemi di spoiler relativo a un film che, alla fine, è parecchio vecchio; si ritenga avvisato chi non l’ha visto e pensa di vederlo a breve.
Detto questo, ero stato avvertito da molti (quasi tutti) che andare a vedere La Tomba delle Lucciole, dello Studio Ghibli, mi avrebbe devastato emotivamente e fatto esaurire le lacrime, per cui quando ieri sono sono uscito dalla sala senza averne versata neanche mezza mi sono sentito, per qualche istante, arido e senza cuore.
Ma come, mi sono detto, mi avevano avvisato e, come non bastasse, diverse persone in sala erano singhiozzanti: perché io no?
Così ho riflettuto, come faccio di solito quando non capisco.
Sicuramente c’era la questione dell’aspettativa: se immaginiamo che qualcosa ci farà commuovere, la barra di confronto perché ciò avvenga si alza di parecchio (così come per qualunque altra emozione “aspettata”), ma non era solo questo.
No, la questione è che secondo me La tomba delle lucciole non è un film commovente.
Prima di tirarmi uova marce, fatemi spiegare.
È un film bellissimo, sì.
È un film tristissimo, assolutamente sì.
Ma non è un film emotivo.
Ne la tomba delle lucciole, anzi, quello che viene meravigliosamente mostrato è quanto la guerra possa desensibilizzare le persone e quanto una qualunque tragedia finisca, quando si somma a mille altre, per svuotare emotivamente chi la subisce invece di dilaniarlo dal dolore.
C’è un limite al dolore che un qualunque essere umano può fisicamente ed emotivamente sopportare: se si supera quello fisico si sviene o si muore, se si supera quello emotivo si muore nell’animo.
Questo è quello che capita a Seita e, per certi versi, anche a tutti quei personaggi che non hanno pietà di lui né prima né dopo: muore dentro. Non soffre, non più, perché è al di là della sofferenza, è al di là del provare sentimenti.
Diventa un involucro vuoto che pian piano si estingue anche fisicamente.
Se così non fosse non vivrebbe in modo tanto passivo la morte della sorella, al punto da non piangere né in quel momento né durante la pira funeraria, né raccogliendone le ossa.
Quello che colpisce è come la perdita finisca per essere nulla.
I morti vengono bruciati in pire comuni.
Un uomo spiega se il carbone va bene per cremare un bambino.
Tutto come nulla fosse perché in tempo di guerra, tutto finisce per essere nulla.
E questo non è emotivamente provante? No, non per me. È una conferma. È triste. Svuota l’animo. Ma non fa piangere, perché si è oltre le lacrime.
E, ritengo, le lacrime non sono neanche lo scopo principale di Takahata: se le avesse volute non avrebbe fatto iniziare il film in quel modo, ma avrebbe spostato le scene iniziali alla fine, giocando su un facile e banale effetto sorpresa.
No, il regista non è interessato a questo: è interessato a mostrare, come fosse un documentario, poi ognuno è libero di provare quello che vuole, ma l’importante è mostrare, l’importante è sapere.
I personaggi stessi finiscono per non essere “reali” o tridimensionali: sono degli avatar, delle icone simboliche di una realtà; non ci si affeziona davvero a loro, perché non li conosciamo, ci si affeziona (volendo) a loro in quanto simboli di innocenza. Sono i simboli a colpire, non il personaggio stesso.
L’importante è sapere, dicevo, perché così, forse, prima o poi non sarà più necessario che qualcuno muoia dentro, oltre che fuori.
Quindi sì, forse sono una pessima persona, non ho pianto.
O forse ho sentito esattamente ciò che può sentire una persona dopo tanto dolore.
Il nulla.
Premetto che non scenderò nei dettagli del film perchè non me lo ricordo bene: l’ho visto tantissimi anni fa e non ho mai più avuto il coraggio di rivederlo, dato che, invece, sono una di quelle persone che si sono disidratate nel guardarlo. A dire il vero non è questa la ragione, chi mi conosce sa che piango praticamente a qualunque film, quindi non è significativo. Il motivo per cui non riesco a rivederlo è il dolore manifesto.
Secondo me, però, non è questione di sensibilità, ma di coinvolgimento. Il dolore altrui ci tocca, ma sempre fino a un certo punto, c’è sempre un limite, un sistema di autosopravvivenza, che fa sì che proviamo orrore, dispiacere, tormento, ma andiamo oltre.
Io credo che questo film tocchi così tanti argomenti intrisi di dolore che ha un’altissima probabilità di toccare un nervo scoperto, una paura di una perdita o una corda che ci lega il cuore. Forse se lo si guarda razionalmente si vede esattamente quel che hai descritto tu e forse era anche l’intento vero dell’autore, ma personalmente ricordo di aver avuto difficoltà a finirlo.
Probabilmente vivo con così tanta razionalità la mia vita che sfogo le emozioni davanti a un film 😉