37. L’illusione di Dio
Credo che il nome di Richard Dawkins sia conosciuto da chiunque si interessi di alcuni tipi di scienza. Biologo evolutivo, Dawkins è da sempre uno dei più bravi e preparati divulgatori scientifici in vita.
E, contemporaneamente, uno dei più polemici. Ricordo ancora gli scontri via libro tra lui e Stephen Jay Gould, per citarne uno, in merito al libro “Il gene egoista”, dello stesso Dawkins.
E, per inciso, sento molto la nostalgia della collana “Discovery”, che mi permise anni fa di leggere volumi di divulgazione come appunto “Il gene egoista”, “Il pollice del panda” di Gould o “In principio” di Asimov. Ma questo è un altro discorso.
Da parecchi anni Dawkins si è anche contraddistinto non solo per il suo ateismo, ma per la sua opera di divulgazione volta a mostrare i motivi per cui credere in una qualunque forma di divinità sia non solo illogico ma anche dannoso. “L’illusione di Dio” è la sua opera che racchiude le sue analisi e i suoi ragionamenti.
A questo punto è doveroso un presupposto: io mi considero agnostico. Sicuramente non credente – qualunque sia la forma di credo di cui parliamo – ma con una propensione alla spiritualità che non mi permette di essere esclusivamente ateo.
Quindi, per quanto ricettivo all’analisi di Dawkins, le critiche presenti nel libro sono rivolte anche a me, dato che l’autore considera inaccettabile anche l’agnosticismo.
Questo per dire che affrontare questo libro significa essere disposti a leggere prese di posizione che in alcuni casi possono disturbare ma che, proprio per questo, andrebbero a maggior ragione lette e assimilate.
Il saggio è suddiviso in capitoli volti ad affrontare uno per uno vari aspetti del credo e della necessità di non credere, partendo dal concetto stesso di divinità, passando dalle probabilità che esista una divinità e affrontando una sorta di breve storia della religione e, in particolare, delle origini.
Si tratta spesso di una lettura affascinante, soprattutto quando Dawkins lascia parlare i fatti e le materie: sono i momenti in cui il libro riesce a essere più efficace, affrontando con precisione scientifica fatti, teorie, probabilità e improbabilità.
Ovviamente, ai fini dell’analisi, l’autore deve anche spesso tirare in ballo le obiezioni che spesso vengono fatte dai credenti per poter fornire loro una risposta. Il problema è che in questi casi la vena polemica di Dawkins finisce per diventare così ingombrante da rischiare di essere fastidiosa anche per chi con la sua narrazione è d’accordo, soprattutto quando finisce per dare risposte dirette a lettere e messaggi che ha ricevuto nel tempo: un’abitudine che, come si diceva, aveva già quando affrontava dibattiti prettamente scientifici.
Senza contare che alcuni aspetti sociologici affrontati da Dawkins sono strettamente legati al mondo anglosassone e, in molti casi, statunitense e questo porta a un raffreddamento dell’interesse da parte di un lettore che quelle situazioni non le ha mai vissute direttamente.
Capitoli imperdibili, d’altro canto, sono quelli dedicati alle origini della religione e dell’etica, quest’ultimo con un’ipotesi estremamente affascinante sul motivo dello sviluppo evolutivo di un senso etico morale.
Un libro interessante, sicuramente, ma che sarebbe stato ancora più apprezzabile se avesse limato quegli aspetti strettamente personali, sanguigni e polemici dell’autore, che sicuramente funzionano bene in un dibattito, ma molto meno in un volume divulgativo del genere.