Qualche pensiero non richiesto

In questi giorni sospesi mi trovo spesso a percepire un senso di oppressione che faccio fatica a scrollarmi di dosso e che, forse, ha bisogno di essere disinnescato almeno parzialmente scrivendo.

Una doverosa premessa è che sono assolutamente convinto che sia necessario contenere il più possibile la diffusione del virus seguendo le indicazioni di chi è preposto allo scopo. Non sono un virologo e non lo è la maggior parte di noi, per cui in questo momento l’ultima parola spetta solo a virologi e a chi è deputato a prenderne le indicazioni e trasformarle in linee guida od obblighi.

È inutile, in questo momento, sindacare. Lo è soprattutto perché mai prima d’ora ci siamo trovati in una situazione del genere e pertanto le teorie sull’efficacia di provvedimenti lasciano il tempo che trovano. Siamo letteralmente un laboratorio sperimentale a livello mondiale e dobbiamo rendercene conto, accettando che non tutte le scelte saranno corrette ma anche che alcune potrebbero fare la differenza tra un disastro di maggiore o minore entità.

Perché, e questa è la prima causa di oppressione, di disastro stiamo comunque parlando. Che finisca con numeri più o meno alti dal punto di vista dei decessi diretti, l’impatto che questa situazione sta avendo ma, soprattutto, avrà su come viviamo temo che non sarà reversibile. Non come vorremmo. Non come speriamo.

In questo momento, ovviamente, i primi a pagare le conseguenze dirette (a parte, altrettanto ovviamente, i malati e le persone che rischiano la vita a causa del virus) sono le persone che si stanno trovando da un giorno all’altro senza lavoro: chi opera nello spettacolo (a voi il mio pensiero più sincero), chi nei luoghi di ritrovo, chi nel turismo. Sono bastate poche settimane e tutto si sta trasformando in un crollo da cui ci vorranno mesi e anni per riprendersi.

E come impatterà questo nel modo di vivere? Come impatterà nella circolazione di persone? Nei viaggi? Negli scambi? La speranza è che sia poco, il terrore è che invece ci faccia fare un salto indietro di decenni.

Penso, egoisticamente, ai miei viaggi a Londra solo per vedere uno spettacolo teatrale, per fare un esempio banale.

Penso a chi fa week-end in una città straniera sfruttando un’offerta di voli low-cost.

Ma, senza andare lontano, gli effetti già si sentono e, per quanto secondari rispetto alla sicurezza, non sono certo trascurabili nell’impatto del benessere dei singoli o, peggio ancora, nell’impatto sulla gestione familiare.

Penso alle famiglie coi bimbi a casa, da gestire pur dovendo continuare a fare tutto il resto.

Penso a me, che pur lavorando sempre da casa e quindi non toccato da questo punto di vista, mi trovo a non avere più quasi alcuna valvola di sfogo al di fuori. A non poter dire “stasera mi sa che vado al cinema”. A non poter guardare a uno spettacolo futuro (di cui magari ho già i biglietti, ma ora siamo sicuri che avverrà). A non poter pensare a un viaggio per quanto piccolo.

E, ripeto, i miei sono problemi minori rispetto a chi, invece, in questo momento non sa come arriverà alla fine del mese.

E qui non posso non soffermarmi, perché ho letto troppe – veramente troppe – persone dire frasi come “va beh, ora dobbiamo stringere i denti per il bene comune, meglio qualche soldo in meno”. Ecco, vorrei spiegare una cosa e, lo ripeto di nuovo per sicurezza, questo non significa non voler rispettare le regole dichiarate, ma sottolineare una drammatica sfaccettature del problema che troppi si stanno dimenticando.

La spiegazione, e mi sembra assurdo doverlo ribadire, non è che ci sia il problema di “qualche soldo in meno”. Il problema è che ci sono migliaia di persone che se non lavorano per due settimane o un mese sono nella merda. Ma nella merda vera. Non quella del “tiro un po’ la cinghia” ma quella del “devo capire come fare a fare la spesa per mangiare questo mese”. Quella merda. E dire “meglio in bolletta ma vivi” è sputare loro in faccia, perché loro, vivi, potrebbero non arrivarci e non per il coronavirus, ma perché sono lasciati soli. Perché perdono lavoro, perdono l’unica fonte di reddito e non hanno nessuno che pari loro il culo.

Questo è il problema. Mia madre diceva sempre “il sazio non crede al digiuno” e mai come in questi casi mi accorgo quanto avesse ragione. Chi sta bene, chi ha un buon reddito, chi nella vita ha avuto modo di mettere soldi da parte, può permettersi di dire “stringiamo un po’ la cinghia”. Gli altri, le partita iva, i lavoratori a progetto, quelli a chiamata, ma anche solo i dipendenti in attività che sono state chiuse o sospese, quelli non sanno cosa sarà di loro. Ripeto. Non sanno cosa sarà di loro. E meritano rispetto e risposte.

Ecco, io non mi permetterò mai di sindacare sulle misure di contenimento, perché non è il mio lavoro. Ma nel momento in cui vengono messe in atto è necessario che si pensi a proteggere chi da quelle misure verrà danneggiato. E non parlo di me che (per ora ma non si sa mai, quindi incrocio qualunque cosa) sto lavorando e che il “solo” problema che ho è di sentirmi privato degli svaghi che mi allietavano la vita. No, parlo di chi sta finendo culo a terra con altri che gli dicono che deve stringere i denti mentre hanno il culo in caldo. Parlo di loro. Vanno protetti. Tutti andiamo protetti. Perché giugno è vicino e ci saranno tasse da pagare. Acconti calcolati sull’anno passato mentre intanto quest’anno non si lavora. Perché tutti (me incluso) abbiamo mutui e in questo momento solo le zone rosse li hanno visti sospesi. Perché la recessione è una certezza. Ora bisogna capire come contrastarla. Non dopo il coronavirus. Nel mentre.

Dobbiamo proteggere la nostra salute, impedire la diffusione del virus, proteggere i deboli. È indispensabile.

Ma ricordiamo che tra i deboli non ci sono solo le potenziali vittime del virus. Tutto qui.

E, in tutto questo, sarà da capire cosa saremo tra qualche mese.

Però sì. Quanto quanto mi manca il cinema.


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Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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