Non sempre Cyrano è Cyrano

Cyrano è probabilmente l’opera teatrale a cui sono più legato per innumerevoli fattori. Il primo ricordo che ne ho è associato ad alcune pubblicità televisive che vedevo quando avrò avuto sì e no otto o nove anni: Gigi Proietti lo metteva in scena – col titolo italianizzato Cirano – probabilmente al teatro Sistina e ogni volta che vedevo passare lo spot con le foto di scena finivo per guardarlo ammirato, pur non sapendo di cosa si trattasse.

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Poi, tempo dopo, ne sentii parlare in quell’episodio di Saranno Famosi – Danny De Bergerac – che ne faceva un proprio piccolo adattamento: non era abbastanza per capirne l’importanza, ma sufficiente a incuriosirmi.
Ad attirarmi.
L’idea, già vista nell’episodio, di qualcuno che amava e non veniva visto per ciò che era non poteva non risuonare in me, adolescente con ben poca fortuna col sesso opposto.

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Ancora dopo arrivarono le scuole superiori e, con esse, una professoressa di italiano che aveva tanti difetti, ma anche il pregio di amare smodatamente il teatro e di introdurvi i suoi studenti. Ero in quarta superiore quando vidi per la prima volta Cirano di Bergerac al Teatro Carcano di Milano, protagonista Franco Branciaroli.
Fu una delle messe in scena più classiche che si possano immaginare, tra costumi, naso finto e scena del balcone.
Lo amai con tutto me stesso.
Lo amai al punto da comprarne più di una copia con varie traduzioni.
Lo amai tempo dopo quando vidi l’adattamento con Gerard Depardieu.

Cyrano era perfetto per me.
L’uomo che, limitato dall’aspetto fisico, aspirava a essere qualcosa di più, cercava di essere molto di più, eppure continuava a combattere con quel maledetto trauma.
Cyrano era l’amante sfortunato, sì, ma era anche il convinto sostenitore di quel “no, grazie” che anche qui sopra ho celebrato tempo fa.
Cyrano era molto di ciò che avrei voluto essere io, tolta la sfortuna e il poco buon senso di certe sue scelte.

Negli anni ho assistito a molti suoi adattamenti. Alcuni li ho rimossi per pietà. Altri li ho amati alla follia, come quello coraggiosissimo di Corrado D’Elia, diventato a sua volta un classico nella sua diversità eppure nella sua capacità di trasmettere la sostanza dell’opera originale.

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Ovviamente, quando ho scoperto che James McAvoy sarebbe stato protagonista di un nuovo adattamento a Londra, assistervi è diventata la missione principale e un po’ di condizioni fortunate – incluso l’essere già a Londra nei giorni di apertura dello spettacolo e l’essere al pc il giorno di inizio delle vendite – hanno fatto sì che diventasse realtà.

L’adattamento a opera di Martin Crimp, in scena al Playhouse Theatre, non si fa certo spaventare dall’opera che ha di fronte: d’altronde siamo a Londra e Shakespeare stesso viene manipolato a piacimento nell’intento di trovare nuove letture e nuovi modi di raccontarlo.
Anche qui, come in D’Elia, abbiamo quasi solo prosa, ma i versi ci sono e diventano brevi parti cantante in rap. I dialoghi vengono cambiati, adattati, modificati allo scopo.

Rossana diventa un personaggio più attivo, più donna moderna (dove moderna intendo quasi del ventunesimo secolo), meno bambolina da ammirare. Lo stesso naso di Cyrano c’è solo nell’immaginazione: lo si nomina, si agisce come ci fosse, ma il viso di McAvoy non ne viene mai deturpato (ed è oggettivamente strano sentirlo lamentarsi della sua bruttezza, accidenti a lui).

Eppure tutto funziona.

La rabbia e il dolore di Cyrano/McAvoy. L’infatuazione di Rossana. Il ruolo di un Cristiano forse – questo sì – poco incisivo e amalgamato col resto.
Si accettano di buon grado i cambiamenti, siano essi legati al mostrare De Guiche esclusivamente come un bastardo senza dargli quella redenzione da me tanto apprezzata nell’ultimo atto, alla suddetta forza di Rossana o alla voluta riduzione delle scene che portano l’intero spettacolo ad avere due soli atti.
Tutto funziona grazie soprattuto a un cast che, a parte il suddetto Cristiano, risulta incredibilmente all’altezza e a un McAvoy che dimostra anche sul palcoscenico la sua bravura.

Tutto funziona, tranne una scelta che, purtroppo, non posso perdonare.

Siamo sul finale della tragedia.
Nell’opera originale Rossana è in convento in attesa della visita settimanale di Cyrano che, prima volta in quindici anni, tarda, vittima com’è stato di un agguato che lo porterà di lì a breve alla morte.
Ma, prima di morire, il guascone deve compiere degli ultimi gesti.
Deve dire addio alla sua amata e, per farlo, decide di usare le stesse parole che quindici anni prima aveva impresso su carta assieme alle sue lacrime, durante l’assedio che portò all’uccisione di Cristiano.

Cyrano, ormai in penombra, chiede di poter leggere finalmente quella lettera e Rossana acconsente. Poi comincia a recitarla a memoria, mentre il buio avanza.
Data la luce, la voce, la situazione, Rossana impiega poco a capire che Cyrano, non Cristiano, era l’autore delle lettere e la voce sotto il suo balcone quella notte di tanti anni prima.
Cito a memoria.

– Voi.
– No, non io, lui.
– Voi, foste voi tutto il tempo. Vostre le parole, vostro l’amore.
-No. Non io. No, amore mio, io non vi ho mai amato, amore mio.

E lì, in quelle parole, in quella negazione disperata che non sa più trattenere la verità, c’è tutto lo spirito di Cyrano, pronto a negarsi la verità anche in punto di morte pur di mantenere l’onore nei confronti di Cristiano.

– Perché mentire se le lacrime su questa lettera erano vostre?
– Ma il sangue. Quello era suo.

Che si sia d’accordo o meno con la scelta di Cyrano, questa è la sua natura. Per quindici anni si è negato la verità per rispetto dell’amore di Rossana e della memoria di un uomo che stimava, la cui sola colpa era non essere dotato della sua stessa capacità di eloquio.
Orbene, nell’adattamento di Crimp questa scena viene stravolta e snaturata.
Rossana non è in convento e, anzi, l’incontro avviene al Caffè.
Lei, addirittura, afferma di aver avuto parecchi uomini e trova strano il pensiero di non aver mai scopato (sic) con Cristiano.

Quando Cyrano giunge in ritardo (non stavolta per un agguato, ma per uno scontro in difesa dell’onore di Rossana) è lui a chiedere della lettera e lei la rifiuta. Dice che è solo sua, a lui non deve interessare. Così Cyrano le dice la verità. Di essere stato lui a scriverla. Le chiede di perdonarlo. Addirittura piange davanti alla rabbia di lei.

E questa scena stravolte e svilisce completamente il protagonista.

Nell’opera originale, Cyrano non è disposto a rinunciare al proprio onore, al suo pennacchio, mai. Qui lo fa. Lo fa cercando di convincere una donna delle proprie parole esclusivamente per ego, per disperazione, per necessità di essere visto almeno in quel momento.
E sebbene si tratti di un comportamento probabilmente più umano e vicino a tutti noi, non è parte del personaggio, così come la situazione stessa imbastita finisce per svuotarne le motivazioni.

Rossana, nell’opera originale, va in convento perché dedica la propria vita al ricordo di Cristiano. Cyrano rispetta quella scelta e la memoria del commilitone e proprio per questo rimane nell’ombra.
Ma se Rossana non sacrifica se stessa, se finisce per andare a letto con quanti uomini vuole, che senso ha la scelta di Cyrano? Perché aspettare la morte per dire la verità? Perché interrompere la propria vita se Rossana non ha fatto lo stesso?

Per il solo timore relativo all’aspetto? Cyrano sapeva già che Rossana era andata oltre.

Quindi perché?

Ecco, per quanto la scelta del convento possa essere poco interessante e moderna si tratta della chiave di lettura necessaria allo svolgimento dell’ultimo atto.
E per quanto dare forza a Rossana sia una scelta coraggiosa e anche apprezzabile, farlo a scapito del momento più significativo della psicologia del protagonista significa perderlo e renderlo un omuncolo senza più sostanza.
Non voglio far passare il messaggio che lo spettacolo non mi sia piaciuto. Come dicevo, per tre quarti l’ho apprezzato enormemente anche nei momenti in cui l’adattamento è stato più prepotente e, comunque, la compagnia aveva un tale talento che non poteva non farsi amare.
Ma il finale è per me una grossa macchia sull’apprezzamento complessivo.

No, amore mio, non ti ho mai amato, mio amore.

Cyrano sta tutto lì.
Toglierlo significa togliergli l’anima.
Nell’opera originale, il tutto si chiude con un lungo monologo del protagonista che lotta con le ombre dei nemici passati.
Le sue ultime parole non sono rivolte a Rossana e al suo amore per lei, ma all’orgoglio di non aver mai rinunciato a una cosa sola.
Al suo pennacchio.
In questo adattamento il tutto finisce prima, le luci si spengono all’improvviso e di quel pennacchio non si fa più menzione.

E forse, a ben pensarci, non è un caso.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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