Carnival Row: Season 1 – In bilico tra aspirazioni e risultati

La prima sensazione che si ha dopo aver visto la prima stagione di Carnival Row è di una serie con enormi potenzialità e ambizioni che, però, deve anche decidere in che direzione vuole veramente andare.

Come già detto parlando del primo episodio, gli elementi narrativi utilizzati nella costruzione del mondo in cui si svolgono le vicende di Philo, Vignette e degli altri protagonisti non sono del tutto innovativi, ma vengono miscelati in una ricetta che stimola e incuriosisce lo spettatore grazie a un adeguato mix di fantasia, realismo e mistero.

L’idea di un mondo steampunksimil-Vittoriano con forti influenze fantastiche non è certo nuova, ma la realizzazione merita un plauso: la fotografia e la costruzione delle scene sono sostanzialmente perfetti, gli effetti speciali (quasi sempre) adeguati e il realismo delle creature, siano esse Fate o Fauni, è ottimale, con l’aspetto di questi ultimi ben studiato affinché ognuno abbia proprie caratteristiche ben discriminanti, una per tutte la forma e le dimensioni delle corna. La scelta di non lasciarsi andare in lunghe spiegazioni sui mondi e le identità delle creature o sulle definizioni di parole a noi oscure può lasciare perplesso lo spettatore occasionale, ma permette un’immediata immersione nella vicenda, lasciando che le informazioni arrivino per deduzione e azioni più che per definizione, un po’ come se fossimo portati per mano nel mondo di Burge e dovessimo scoprire da soli tutto ciò che ci circonda.

[pullquote]L’idea di un mondo steampunk simil-Vittoriano con forti influenze fantastiche non è certo nuova, ma la realizzazione merita un plauso.[/pullquote]

Il realismo del mondo che ci viene mostrato è maniacale, dallo sporco del Row del titolo alle scene di sesso che includono le Fate. La resa di luoghi come Tirnanoc, patria di origine di queste ultime, o di un bordello per chi ha gusti particolari, del porto come delle abitazioni pseudo-vittoriane è precisa e coinvolgente e fa nascere il desiderio di poter esplorare personalmente questa realtà così lontana eppure così vicina a noi.

Rispetto a quello che si poteva evincere dai trailer e dal primo episodio, la storia tra il Philo di Orlando Bloom e la Vignette di Cara Delevingne non è in realtà il tema principale di questa prima stagione e fa più da rumore di fondo che altro, venendo messa quasi totalmente da parte in un ampio arco della seconda metà della stagione: a dirla tutta, siamo in realtà piuttosto stupiti dello scarso screentime complessivo dedicato a Delevingne, considerate le premesse dei già citati trailer. C’è da dire che non è certo l’aspetto romantico ciò che attrae di più di Carnival Row: la sua presenza è anzi quasi un di più che può a volte sembrare piazzato lì per accontentare una fetta di pubblico, tanto che la dinamica tra Philo e Vignette funziona molto meglio quando i due sono tra loro ostili rispetto a quando vanno d’amore e d’accordo.

Molto più importanti a livello narrativo sono le altre storyline che intersecano in modo più o meno netto le strade dei due personaggi. In primis il crime/mystery che fa da reale filo conduttore della storia di Philo e che funge da punto di raccolta finale di quasi tutte le altre trame. Lo svolgimento è ben ritmato, con una buona dose di eventi e colpi di scena che riescono a non far annoiare quasi mai lo spettatore, incuriosendolo a sufficienza per andare avanti, nonostante non tutti i colpi di scena siano particolarmente sorprendenti.

La trama più prettamente politica è forse quella abbozzata peggio. Pur potendosi avvalere di attori del calibro di Jared Harris e di Indira Varma si ha l’impressione di un avanzamento a strappi, con momenti lenti, accelerate improvvise e nuovi stop fino al ricongiungimento con la trama principale. Molto di ciò che si vede è sensato e funziona dal punto di vista logico, ma l’effetto è che sia troppo spesso accennato più che approfondito e non permetta allo spettatore di assimilare a dovere gli eventi man mano che si verificano. Sicuramente diversi personaggi avrebbero giovato di un maggior tempo al fine di delinearli in modo più completo e non solo abbozzato: uno per tutti Jonah, figlio del Cancelliere interpretato da Harris, che a seconda delle necessità è prima un giovane inetto e viziato, poi un uomo manipolato da una persona ben più in gamba di lui, poi quasi un fine stratega; non si nega che possa essere adeguatamente sfaccettato, ma è necessario dare il tempo perché questi aspetti vengano fuori in modo adeguato proprio a causa del tipo di narrazione per azioni che si è scelto di tenere.

La trama più slegata dalle altre è, pur piuttosto prevedibile nei suoi sviluppi, quella che diverte maggiormente, grazie alla buona alchimia tra Tamzin Merchant David Gyasi. Il tema del razzismo, dell’immigrazione e dell’intolleranza è permeante in ogni scena di Carnival Row, al punto da poter diventare quasi doloroso in certi momenti: in questo contesto, la sottotrama di ImogenAgreus, pur con tutti i suoi limiti, è paradossalmente uno dei pochi sguardi di speranza verso una società che di luminoso non ha praticamente nulla.

Ecco, questo è l’aspetto che più colpisce della serie: la disperazione. Diffusa, serpeggiante, senza distinzioni tra oppressori e oppressi. L’odio verso il diverso è tanto reale che sarebbe sufficiente cambiare la parola “Fae” con “Migranti” per avere una resa immediata del mondo attuale e, sotto questo punto di vista, la serie non è e non vuole essere sottile: la sua denuncia è immediata e non ha strati interpretativi, ma in certi casi gli strati interpretativi sono inutili se non dannosi e in questo periodo storico non fa male vedersi la realtà sbattuta in faccia con le sue amare conseguenze.

[pullquote]Se, guardando le scene finali, non viene in mente la parola ghetto o peggio, allora vuol dire che non si è attenti.[/pullquote]

Come si può evincere, Carnival Row affronta tanto e lo fa con una certa dose di ambizione, ma forse cerca di ottenere troppo con il tempo a disposizione. Con otto episodi e tre o quattro trame che dividono il loro screentime con il necessario world-building non c’è modo che tutti gli archi narrativi vengano sviluppati a dovere, un difetto che diventa più evidente man mano che si raggiunge il finale di stagione. Mentre, infatti, la prima metà riesce ad avere una buona crescita nel ritmo narrativo che risulta ben cadenzato, senza eccessive accelerazioni o, all’opposto, perdite di tempo, nella seconda qualcosa si perde e la necessità di portare a termine le storie conduce con sé una fretta che abbiamo in parte già evidenziato e che stona col lavoro fatto in precedenza.

Accade tanto, accade velocemente e, a volte, accade senza la necessaria sorpresa o con scelte che sfiorano pericolosamente l’intervento del deus ex machina di turno. Il risultato finale è che non sempre si riesce a emozionarsi come si vorrebbe, a essere stupiti o preoccupati o semplicemente coinvolti, pur consapevoli che non sia un difetto di ciò che viene raccontato ma di come viene fatto.

Per la già confermata seconda stagione la speranza è che gli autori riescano a focalizzarsi su un minor numero di trame per poterle approfondire adeguatamente e donarci alcune di quelle emozioni che per ora abbiamo assaggiato, ma non assaporato come avremmo voluto.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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