The Handmaid’s Tale: 3×04 God Bless The Child

Se la prima stagione di The Handmaid’s Tale era stata la rappresentazione della disperazione e la seconda aveva seguito la parabola di caduta nel fondo del pozzo e dei primi tentativi di risalita, questa terza sembra volersi porre come la stagione della svolta, del cambiamento, della semina della rivolta.

La differenza più evidente è proprio nella gestione del personaggio di Junesempre meno uguale alle altre ancelle e incamminatasi su un percorso strettamente personale. Abbiamo visto come nel triplo pilot i suoi rapporti con ciò che la circonda avessero iniziato a cambiare sostanzialmente: da un lato nelle interazioni con le Martha, dall’altro nel suo nuovo ruolo di Ofjoseph, ma è sufficiente vederla agire immersa tra le sue simili-ma-diverse per rendersi conto che molto è cambiato.

Lo sguardo di June, per due stagioni più spento, disperato e arrabbiato che altro, ha ora una piccola fiamma che vuole esplodere: quella della ribellione, della ricerca di suoi simili e del desiderio – come dice lei stessa- di bruciare Gilead fino a raderla al suolo. Questo spostamento nella gestione del personaggio è percepibile anche nelle sue interazioni con personaggi vecchi e nuovi, a partire dai Waterford.

Uscita ormai dal ruolo di ancella della coppia e quindi, potenzialmente, fuori dalla vita dei due, June si rende conto di avere ancora un legame emotivo con entrambi, che potremmo riassumere come una sorta di mix tra una grave Sindrome di Stoccolma e la consapevolezza di aver bisogno di agganci potenti per poter portare avanti il proprio piano; il legame, però, non è univoco: pur se in una malata relazione di carnefici e vittima, ciò che i tre hanno condiviso (o, meglio, ciò che i due Waterford hanno separatemente condiviso con June) non viene sciolto dalla semplice lontananza, soprattutto in un luogo come Gilead dove nessuna relazione può essere realmente sincera. Non al di fuori del matrimonio, quanto meno (e anche in quel caso si tratta più dell’eccezione che della regola).

[pullquote]La malata relazione di carnefici e vittima ha lasciato una forma di legame tra i tre[/pullquote]

Non stupisce del tutto, quindi, che lo stesso Fred si rivolga a June per avere un ponte che lo ricongiunga a Serena e che, al contempo, quest’ultima sia non solo disposta ad ascoltare la proposta della ex-Offred ma che più di una volta la tratti magari non da pari, ma quanto meno da persona degna di essere ascoltata. Che però la strada sia lunga è evidenziato dallo stesso comportamento di Mrs. Waterford, più istintivamente pronta a provare dispiacere per Naomi che per la povera Janine nel momento in cui la situazione precipita durante un party di celebrazione. Eppure le prime avvisaglie ci sono, come dimostra la sua apertura di pochi istanti dopo.

Sebbene la trama relativa a questi nuovi sviluppi fosse necessaria, qualche dubbio sulla gestione si fa strada. In particolare stona come il comportamento del resto dei personaggi nei confronti di June sembri essere variato tanto quanto quello dei Waterford e di chi la conosce bene. La donna si sposta fin troppo facilmente tra una stanza e l’altra, alza la testa più delle altre, subisce un minor numero di conseguenze di quante eravamo abituati ad aspettarci: è presto per preoccuparsi e la serie non ha certo mai lesinato il sadismo – anche eccessivo – nei confronti della protagonista, ma non vorremmo che scelte mal studiate portassero a un plot-armor di cui non si sente certamente il bisogno.

[pullquote]Le storyline parallele sono quelle che in questo episodio emozionano di più[/pullquote]

Nonostante la storyline della protagonista sia sempre importante, è da notare come l’episodio riesca ad eccellere quando sposta la sua attenzione su comprimari o sulla nuova linea narrativa situata in Canada. Come sempre accade quando le si dà spazio, Janine si rivela un ottimo strumento narrativo, carica della sua dolcezza, fragilità e del bisogno di essere apprezzata e amata. Il suo dialogo con Aunt Lydia è esemplare e, come dice giustamente June, la rappresenta pienamente: Janine non dice parole gentili perché vuole manipolare, ma è buona perché spera di essere approvata, soprattutto da chi è nella sua vita con un ruolo di autorità diretta.

Lydia, però, è cambiata molto dopo l’assalto di Emily ed è Janine a farne le spese: mentre una volta il suo gesto sarebbe stato punito severamente, ma con discrezione, l’esplosione di violenza con cui l’anziana Zia si sfoga è il culmine della sua trasformazione. Lydia, il cui passato ci è in buona parte sconosciuto, è una donna che ha permesso a Gilead di modellarla, trasformandosi in una sua vera e propria estensione. Nel suo braccio. Ciò che ha ottenuto in cambio è l’autorità data dal suo ruolo, che le ha permesso di ritenersi intoccabile grazie a un’invisibile corazza costituita dal suo grado nella società. Come dicevamo nel precedente articolo, Gilead funziona esclusivamente grazie a questi ruoli definiti e fatti valere con la forza dell’intera società.

Il problema è quando, come avvenuto a Lydia, tale ruolo non è più sufficiente a proteggere: l’attacco di Emily non l’ha solo ferita gravemente dal punto di vista fisico, ma le ha rimosso quella corazza invisibile, rendendola così virtualmente nuda e indifesa verso chiunque le si avvicini; e spogliata dell’autorità rimane con l’unica cosa che davvero l’ha alimentata: la rabbia cieca e violenta.

Lo sguardo dei Comandanti e delle loro famiglie durante lo sfogo della Zia è indicativo di quanto quando cade la maschera sia difficile affrontare le conseguenze delle proprie azioni: affermare che la cerimonia è volere di Dio aiuta a celare uno stupro rituale, pensare che le Zie abbiano cura delle Ancelle fa sì che non ci si ponga il problema del come ciò avvenga. Vedere la violenza in atto ricorda la realtà, ma un attimo dopo la colpa viene spostata sulla mano finale che ha perpetrato quella violenza stessa e non verso chi, invece, l’ha resa possibile. Il solito dito e la solita luna, in sostanza.

Ciò che, invece, più emoziona dell’episodio è il percorso di Emily, di nuovo a contatto con la moglie Sylvia e il figlio Oliver. Abbiamo apprezzato enormemente la scelta di non mostrare un incontro di pura felicità e gioia, perché sarebbe stato forzato, falso e superficiale. Emily è una donna che ha sofferto enormemente, che porterà per il resto della sua vita cicatrici emotive e fisiche incancellabili e ignorare il post-trauma avrebbe significato svilire i suoi trascorsi. I passi delicati, la necessità di riscoprire spazi e tempi, l’attenzione posta anche al semplice abbraccio di un figlio che temeva perduto per sempre sono pennellate perfette che ne descrivono il percorso di – speriamo – guarigione. Ci ripetiamo, ma Alexis Bledel fa un lavoro eccezionale nel rendere le sfumature emozionali del personaggio, tanto reali da farle giungere con intensità anche allo spettatore.

Come dicevamo, si tratta di una scelta narrativa giusta, del cui realismo potrebbe dare conferma chiunque abbia assistito al ritorno a casa di persone sequestrate per mesi o anni o, facendo un esempio non particolarmente esagerato, di chi fu liberato da campi di sterminio in passati recenti e remoti.

Sebbene non manchino altri spunti all’interno dell’episodi, dalla maschera di accondiscendenza di Ofmatthew che già si sta incrinando alla scoperta da parte dei Waterford, di June e dell’intera Gilead dell’arrivo di Nichole tra le braccia di Luke fino al parallelismo tra la semplicità e il calore del battesimo di Hannah contrapposti alla rigidità e alla falsità della cerimonia di benedizione dei figli di Gilead, riteniamo che saranno argomenti che avranno ampio spazio di approfondimento negli episodi a venire.

La serie ha di sicuro preso una nuova strada e ha davanti altre nove puntate per percorrerla in modo adeguato: i tempi ci sono e le capacità narrative anche, ci auguriamo che gli autori abbiano saputo sfruttare entrambi nel modo migliore.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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