Marvel’s Runaway: Season 2 – la stagione delle conferme
Quando avevamo parlato del finale della scorsa stagione di Marvel’s Runaways avevamo sottolineato i due aspetti che si erano rivelati caratterizzanti per la serie: la buona qualità dei personaggi e della storia e la pessima gestione delle tempistiche narrative, incluso il cliffhanger finale. Se dovessimo racchiudere in una sola frase il nostro parere sulla seconda stagione, non potremmo fare altro che sottolineare come entrambi siano stati non solo confermati, ma addirittura accentuati, creando un divario di gradimento che risulterà più o meno ampio a seconda dell’importanza data da ogni spettatore ai singoli aspetti.
La seconda stagione riparte esattamente da dove la prima era terminata, e non poteva essere altrimenti: la sensazione di continuità è tale da confermare come l’interruzione della prima stagione fosse stata eccessivamente drastica e inadatta a un season finale. Dei tredici episodi, infatti, i primi sette sono volti a terminare, quanto meno apparentemente, quanto rimasto in sospeso: i sei fuggitivi devono imparare a vivere in strada (e a non fidarsi del primo belloccio che incontrano), mentre il piano di Pride e di Jonah avanza tra interruzioni più o meno gravi e, nel mezzo, si reiterano i tentativi da parte dei vari genitori di tornare in contatto coi figli attraverso mezzi più o meno aggressivi e leciti.
Numerose le sottotrame che vengono messe in moto nella prima metà, alcune ben funzionali e congegnate e altre con l’amaro retrogusto del materiale riempitivo. Infatti, mentre la storia di Darius, Tamar e della breve ma intensa relazione tra Alex e Livvie servono a sostenere le motivazioni del giovane Wilder, la vicenda di Topher risulta scialba e inserita gratuitamente, un po’ a richiamare – quasi solo per il nome – il corrispondente personaggio fumettistico, un po’ a far volume.
Gli unici effetti del suo subplot sono sul personaggio di Molly che, però, è anche uno dei pochi a non averne bisogno, dato che le sue motivazioni e il suo sviluppo sono tra i più curati dell’intera stagione, cosa che non si può dire per tutti i protagonisti.
Se, infatti, Alex, Nico e Gert proseguono tra alti e bassi sulla propria strada (con altri difetti, di cui parleremo dopo), Karolina e Chase vengono gestiti in modo altalenante, in una sorta di continuo tira e molla che poteva essere – a stento – giustificato nella prima stagione, ma che risulta irritante e forzato in questa.
Nonostante il bisogno di appartenenza sia, comprensibilmente, un elemento caratterizzante dei sei ragazzi, quando si arriva a Karolina e Chase diventa la scusa per comportamenti discontinui e non sempre in linea coi personaggi e con le loro motivazioni. Non dobbiamo infatti mai dimenticare che il motivo principale per cui i sei ragazzi sono fuggiti è la scoperta dei quindici anni di omicidi perpetrati dai genitori per conto di Jonah: una base che non può essere rinnegata o messa da parte, a meno di mettere in dubbio le fondamenta stesse della serie. Se quella scoperta unita all’omicidio di Amy e dei genitori naturali di Molly non è sufficiente a mantenere lucide le posizione dei Runaways, allora che senso c’è perché questi rimangano tali?
Sotto questo punto di vista, se vogliamo, l’evoluzione di Chase è la più corretta: già combattuto in origine, vittima del rapporto malato con Victor, il ragazzo finisce per tornare a casa in nome di un “sono sempre i nostri genitori” piazzato lì di punto in bianco; peccato che lui stesso si fosse infuriato giusto poco prima per essere stato costretto a incrociare la madre per opera di Gert.
Karolina, poi, è una vera banderuola. Si mantiene di nascosto in contatto con Jonah perché è il padre biologico (poco importa che sia anche un assassino di massa), poi capisce che è cattivo perché ha ucciso Amy (di nuovo due pesi e due misure), poi si infuria perché Nico lo ha ucciso invece di addormentarlo (dando per scontato che la magia di Nico avesse lo stesso effetto su un’entità aliena). Rinnega la madre, si allea con Frank, ma poi ha pietà della madre e quando non riesce a manipolare Frank e, anzi, rischia di essere imprigionata a sua volta, non esita a ripagarlo con la stessa moneta. Senza contare la quantità di volte in cui il rapporto tra lei e Nico si è interrotto ed è ripreso.
Come dicevamo, i personaggi che si sviluppano più coerentemente sono gli altri quattro, sebbene con percorsi e gradimento diversi. Di Molly abbiamo in parte già detto: pur essendo la più giovane e a maggior rischio di stereotipi, finisce per essere l’anima e la coscienza del gruppo, anche quando la sua solitudine e la giovane età la portano a essere fin troppo entusiasta nei confronti del già citato Topher. Molly, un po’ in quanto sorella minore acquisita e un po’ per la sua forza e purezza d’animo, è il centro attorno a cui gravita il cuore dei sei: non è un caso che uno dei momenti più belli ed emozionanti sia quello della sua festa di compleanno, in cui l’intera famiglia di fuggitivi si prodiga per donarle ore di felicità. E, contemporaneamente, non stupisce che l’abbandono di Chase proprio alla fine di quella serata abbia un effetto ancora più devastante nell’umore del gruppo e della giovane.
La stessa Gert ne elogia l’importanza e il rapporto tra le due è, per quanto meno sottolineato rispetto alla prima stagione, ancora un punto fermo della definizione dei due personaggi. Ciononostante il percorso della sorella maggiore non è secondario rispetto a quello di Molly ed è, per certi versi, più ostico e non sempre altrettanto riuscito. Per metà stagione, infatti, la ragazza viene posta in una piega discendente dovuta alla mancanza di farmaci e questa la rende progressivamente una spina nel fianco per gli altri, a partire da Chase: pur essendo un po’ troppo protratta, tale spirale serve a definire i punti di forza e quelli deboli nella relazione tra i due giovani e a fornire a Gert una maggior tridimensionalità che in precedenza si era vista solo nei suoi momenti di fragilità.
Purtroppo questa scelta porta a sacrificare eccessivamente l’utilizzo di Vecchi Merletti, che troppe volte è lasciata fuori scena: il problema è il solito che si presenta quando si hanno a disposizione personaggi (o dinosauri) troppo potenti e che, per questo motivo, vengono messi da parte con le scuse più varie. Vedere Old Lace gestita come poco più di un cagnolino e rispolverata solo come anello debole del rapporto ragazza/dinosauro significa assistere a uno spreco di dinosauro: una colpa che chi scrive non può non ritenere estremamente grave.
Scritto bene e, proprio per questo, estremamente irritante è Alex. L’unico del gruppo a non avere alcun tipo di potere è anche caratterizzato da un forte senso – in buona parte autoindotto – di superiorità mentale nei confronti degli amici, in cui la compensazione rispetto alle doti altrui non è certo un aspetto secondario. Il problema di Alex è che l’intelligenza – di cui è oggettivamente dotato – non è sufficiente a renderlo un abile pianificatore, leader o manipolatore: se la consapevolezza della propria intelligenza si trasforma in presunzione o arroganza, allora l’intelletto stesso finisce per diventare un ostacolo invece che un aiuto. Troppe volte capita che il suo “fidati di me” si rivolti contro non solo a lui, ma a chiunque abbia la malaugurata idea di ascoltarlo, vittime di una convinzione raramente supportata dai fatti. Se aggiungiamo una tendenza al non sapere gestire i rapporti emotivi e all’agire in modo estremamente egoistico otteniamo un personaggio che quasi mai risulta gradevole per lo spettatore ma che, comunque, è oggettivamente realistico e ben sviluppato dalle sue basi.
Un po’ come Nico, l’ultima dei fuggitivi, che prosegue la sua strada di scoperta dei propri sentimenti e della propria oscurità. L’evoluzione dei suoi poteri rivela – assieme a poche parole di Tina – quanto la tecnologia abbia poco a che vedere con la sua staffa: un tema che, immaginiamo, verrà approfondito in un’eventuale terza stagione. La crescita di Nico è più sfumata rispetto a quella di altri personaggi, più legata al suo sentire che al suo modo di porsi, ma proprio per questo è forse una delle più complete e valide.
Più delicata è la gestione dei membri di Pride, che rappresentano forse l’anello più debole della stagione. Se già nel corso del finale della precedente avevamo sottolineato come il loro ruolo si fosse indebolito, per tutta la seconda ci troviamo davanti a personaggi ingombranti che troppe volte sembrano gestiti in modo casuale e per alcuni dei quali la rivelazione di fine stagione non migliora la situazione, bensì la indebolisce ulteriormente.
I più coerenti sono probabilmente i Wilder che, guarda caso, sono anche i più esterni alle vicende di Pride. I loro scopi sono ben definiti e in qualche modo limitati, ma proprio per questo la loro caratterizzazione è coerente e ben calibrata: la stessa evoluzione di Catherine è radicata nelle origini del personaggio ed è ben contrastata dal residuo senso morale del marito. Il percorso che li porta a essere arrestati porta a compimento il loro ciclo narrativo e ad adeguata conclusione le motivazioni che hanno mosso Alex fin dalla prima stagione, alimentate poi ulteriormente dalla morte di Darius.
Anche a Janet viene data una linea narrativa sensata e, anzi, le viene finalmente concesso uno spazio che nella prima stagione non aveva avuto: la donna non è solo la moglie di Victor e la madre di Chase, ma è a sua volta uno scienziato di notevoli capacità che ha, in questa sede, modo di dimostrare. Una correzione dovuta e ben gestita per un personaggio che era stato fastidiosamente bidimensionale nella prima stagione.
Discorso a parte va fatto per i Minoru e per gli Yorkes. La possessione a cui sono soggette Tina e Stacey, per quanto quasi subito evidente, avrebbe potenzialità narrative di prim’ordine, con richiami all’invasione degli ultracorpi o, se vogliamo rimanere in ambito Marvel, a Secret Invasion. Perché un meccanismo del genere funzioni a dovere è necessario che il contrasto tra le due versioni di un personaggio sia sottolineato e riconosciuto non solo dallo spettatore, ma anche dagli altri protagonisti, quanto meno tra i più vicini: in questo caso, il compito sarebbe stato da affidare ai rispettivi partner, Robert e Dale, ma l’occasione è sprecata quasi del tutto. Robert, in particolare, è forse il genitore meno caratterizzato. Nel corso della stagione cambia modo di porsi quasi come il vento e quando si giunge allo scontro finale tra lui e Tina, ormai quasi del tutto posseduta, e Nico, combatte la figlia con un’aggressività e una violenza completamente ingiustificate e fuori carattere.
Dale, invece, si sveglia solo sul finale, incapace di rendersi conto del percorso verticale intrapreso dalla sua non-moglie e confermandosi un personaggio più insulso che utile e più irritante che divertente. D’altronde Dale e Stacey sono sempre stati un elemento dissonante in Pride, troppo leggeri per essere credibili nel ruolo di assassini seriali e troppo inseriti nel contesto per non sembrare folli nella loro leggerezza: la decisione di usare Stacey come veicolo della moglie di Jonah è un modo per usare in maniera più fruttuosa un personaggio che ormai non aveva più molto da dire, ma il risultato è di rendere Dale ancora più insulso, irritante e, nella scena finale con Gert, inquietante.
E se parliamo di personaggi inquietanti e irritanti non possiamo non citare, almeno di passaggio, quel Frank che è velocemente passato dall’essere un imbecille burattino manipolato da chiunque a un padre di famiglia desideroso di riunire moglie e figlia, a un assassino, a un manipolatore pronto a sacrificare le stesse moglie e figlia di poco prima. Alla faccia dei problemi di personalità. E, giusto per chiudere la carrellata, anche il cambiamento di Leslie non riesce a non far storcere del tutto il naso, ma si riesce a giustificare grazie al background pian piano costruitole durante la stagione.
Dove nella prima serie avevamo avuto una donna spietata e gelida, con un’empatia praticamente nulla nei confronti del prossimo e dei giovani sacrificati, la rivelazione della realtà di Jonah, del padre e, soprattutto, della madre la portano a rimettere in discussione – con ottimo tempismo, non c’è che dire – quanto fatto in passato. Un cambiamento che non potrà ridarle alcun tipo di verginità morale, ma quanto meno una motivazione più o meno accettabile che sia.
Nel complesso ci troviamo davanti a una stagione che continua a fare delle interazioni tra i ragazzi il proprio punto di forza e che risulta sufficientemente avvincente da spingere al binge watching, ma che al contempo non riesce a scrollarsi i difetti che già erano presenti nella prima, in particolar modo quelli legati ai tempi narrativi: lì avevamo avuto una chiusura tagliata letteralmente con l’accetta, tanto che l’arco narrativo finisce per concludersi in modo accettabile solo con il settimo della seconda e, contemporaneamente, arriviamo al finale di quest’ultima che è tale solo di nome. Non c’è chiusura del ciclo narrativo, non c’è punto fermo da cui ripartire, c’è solo un enorme cliffhanger che lascia lo spettatore insoddisfatto, anche considerando il fatto che a oggi non è stata annunciata una terza stagione.
Trovarsi davanti a una stagione di tredici episodi con ben più di un momento riempitivo che termina con un finale così aperto è segno di un’incapacità nella gestione dei tempi narrativi di base, di una mancanza di rispetto nei confronti dello spettatore o, temiamo, di entrambe le cose.
Come si diceva non è ancora stato annunciata un’eventuale terza stagione e, a questo punto, ci chiediamo non solo se arriverà, ma anche se ne varrà la pena: se dovesse chiudere le trame aperte per arrivare a una conclusione degna, anche se non definitiva, allora la risposta potrebbe essere positiva, ma se si dovesse ripetere lo stesso espediente narrativo, tanto varrebbe fermarsi qui e prendere atto di aver potuto godere di una serie con tanti aspetti positivi, ma incapace di una narrazione completa e conclusiva.