Equità

Uno dei (tanti) problemi di questo paese, che permea ogni strato sociale e personale, rifulgendo anche nelle posizioni che dovrebbero fungere da esempio, sta nei deviati concetti di giustizia, furbizia, differenza tra concesso e dovuto, tra diritti, doveri e privilegi.

Lo vediamo in ambito sociale, ovviamente: gli ostacoli contro il matrimonio tra persone dello stesso sesso nascono fondamentalmente dal considerare un proprio privilegio ciò che invece è un diritto universale e, pertanto, nel non volerlo concedere ad altri perché parte dell’importanza di un privilegio sta nel fatto che questi altri non ce l’abbiano. Che, se parliamo di vite private, è un concetto talmente aberrante che faccio fatica a comprendere come un essere umano dotato di sensibilità possa anche solo considerarlo, ma tant’è.

Lo vediamo in ambito culturale/di competenze. Viene vista come presunzione/privilegio quello che invece è il risultato di un percorso di studio e apprendimento, di sacrifici, di approfondimento che, semplicemente, non si accetta faccia la differenza. La scorciatoia è sempre la chiave: perché dovrei fare vent’anni di studio quando posso credere alla prima cazzata letta in rete, se alimenta le mie convinzioni e mi fa contento? I risultati, di nuovo, li stiamo vedendo, dal ritorno di malattie infettive a – e non è un salto logico così grande – la stessa Brexit.

Ma lo vediamo anche nella vita di tutti i giorni, nelle dinamiche lavorative e private. Il lamentarsi delle tasse alte e poi essere disposti a pagare senza fattura per risparmiare. Il trovarsi davanti a una coda lunga e cercare sempre il modo per saltarla, per conquistare un privilegio anche momentaneo, anche fittizio. Il dover sempre dimostrare agli altri che noi e solo noi sappiamo dove spendere di meno, dove non farci fregare, perché si sa che tutti sono solo pronti a fregarti.

Se c’è una cosa che ormai ho assodato è che di solito siamo pronti a vedere negli altri i nostri difetti e i nostri comportamenti: se noi saremmo pronti a comportarci in un certo modo, allora ci aspettiamo anche gli altri lo facciano. Se questo avviene, allora ci atteggiamo a persone che la sanno lunga, se non avviene, allora reagiamo con sospetto (in caso di comportamenti positivi o neutri) o irritazione/rabbia (in caso di comportamenti che percepiamo come sbagliati, indipendentemente che lo siano o meno).

Si arriva al punto che il pagare un servizio viene considerato da molti come una cosa per cui il pagato dovrebbe essere grato. “Ti pago. Ti ho pagato per tempo. Ti ho pagato con soli 15 giorni di ritardo. Dovresti essere contento”. E perché dovrebbe essere così? Per quale motivo si dovrebbe essere grati (ripeto GRATI) per qualcosa che è dovuto? Se una persona lavora, lo fa per il compenso che è previsto riceva nei tempi stabiliti: pagarlo il giusto e per tempo è la base minima del vivere civile. Ma in questo paese (sempre minuscolo, che il maiuscolo non ce lo meritiamo da tempo) funziona così: funziona che chi si fa il culo (dipendente o meno, cambia poco) dev’essere grato di ciò che quel farsi il culo gli fa percepire. Come se fosse la mancia del genitore benevolente. Come se, sì, alla fine un contentino te lo meriti. Una mentalità perversa che, fateci caso, permea ogni situazione, anche all’inverso: pago, quindi ho diritto a qualunque cosa. Anche le più assurde e spropositate. Perché pago.

No.

Pagare non è un dono, non è comprare una persona né uno schiavo, non è essere autorizzati a fare ciò che ci pare e non è un qualcosa che si fa per bontà d’animo. Pagare è il compenso misurato di un particolare servizio o prodotto. Nel momento in cui decido di usufruirne mi impegno a corrispondere quel prezzo, il che significa che è mio dovere pagarlo nei tempi concordati ed è mio diritto ottenere ciò per cui ho pagato. E solo quello. E, nel dubbio, ciò che non è esplicitamente incluso negli accordi è da considerarsi escluso e non viceversa.

Una vecchia frase ormai più abusata dice “se mi paghi come dico io, lavoro come vuoi tu, se mi paghi come dici tu, lavoro come voglio io”: ha un certo appeal, ma mi rendo conto che per certi versi è sbagliata. Più corretta è “se mi paghi come abbiamo stabilito, lavoro come abbiamo concordato”.

Un concetto che dovrebbe essere banale, ma che in un mondo in cui “dai, fai un’eccezione per questa volta” o “beh, due o tre settimane in più cosa vuoi che cambino” sembra la base per una rivoluzione.

Che non avverrà mai.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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