The Handmaid’s Tale: 2×10 The Last Ceremony

Cerimonia. Una parola che, dal primo episodio della serie, abbiamo imparato ad affrontare con orrore, nel suo essere maschera che nasconde uno stupro costante e rituale di decine di donne.

È sufficiente chiamarlo cerimonia, affogarlo tra supposte giustificazioni religiose, azzerare la volontà delle vittime e il gioco è fatto: lo stupro diventa apparentemente tollerabile nel suo orrore. Come un lavoro, dice la voce fuori campo di June mentre Emily ne sta subendo una: si spegne un interruttore, ci si ripete che non sta succedendo a me. L’essere umano, si sa, riesce ad adattarsi a quasi tutto se l’orrore rimane costante e se, magari, lo si definisce cerimonia.

Qualcosa, però, prima o poi si rompe. Possono essere i cenni di un comandante all’aspetto fisico delle ancelle, le reazioni esterne a ciò che Gilead davvero rappresenta – come il voltafaccia canadese dell’episodio precedente – oppure può essere la sfacciataggine di un’ancella che non sa stare al suo posto.  Il peccato di June è la lesa maestà. Nei confronti di Serena, più volte nel corso delle due stagioni con l’apice nel sorriso beffardo e nella risposta arrogante dopo la mancata nascita, ma anche nei confronti di  Fred Waterford, il cui ruolo già era stato minato dalla collaborazione di ancella e moglie, omuncolo che ha bisogno di aggrapparsi al potere formale mentre sente sfuggire quello reale, mai appartenutogli davvero.

Questa doppia colpa di June è il collante che riavvicina marito e moglie nell’abominio della vendetta, del desiderio di rimettere al suo posto un’ancella ormai viziata e irriverente, e la conseguente punizione è la più esecrabile. Stupro. Non più sotto forma di finta celebrazione, bensì come strumento di esercizio del potere che da millenni accompagna le peggiori tragedie: in guerra, in ambiti familiari e non, lo stupro è esercizio di potere volto ad annullare la vittima, a ridurne l’essenza al nulla. Lo è sempre stato, in guerra come negli abusi familiari.

In questa azione Serena e Fred sono complici alla pari. È Serena a proporlo al marito, è lei a intrappolare June ed è sempre lei a ignorarne le urla di dolore e disperazione mentre subisce una violenza da cui è impossibile estraniarsi. Le maschere cadono. La maschera di Fred, il cui bisogno di riacquistare potere ne mostra il vero volto. La maschera di Serena, in grado di provare vicinanza solo quando toccata personalmente, ma il cui cammino verso l’oscurità è definitivamente e volontariamente tracciato. La maschera di Gilead, per quanto sempre evidente come tale, che perde sempre più costantemente la copertura sotto la quale la verità spinge per uscire.

La rappresentazione visiva ed emotiva della violenza è cruda, quasi intollerabile e, per questo, necessaria, date le nuove domande che porta con sé: perché questa scena ci colpisce di più rispetto a quella iniziale di Emily? La violenza è la stessa, eppure è indiscutibile il maggior impatto emotivo della seconda. Può essere sufficiente la nostra spiegazione iniziale, quella dell’adattamento? O c’è qualcosa di più insidioso a cui dovremmo prestare attenzione, che ci fa erroneamente e drammaticamente pensare che la protesta disperata di June rende la violenza apparentemente più terribile quando in realtà non lo è?

Tante volte abbiamo scritto quanto Gilead rappresenti ciò che potrebbe facilmente accadere se non dovessimo stare all’erta, ma mai come in The Last Ceremony è accaduto di poter pensare che qualcosa sta già avvenendo. La breve riunione tra June e Hanna e la conseguente, dilaniante,  nuova separazione forzata richiamano – in un inquietante quanto non voluto tempismo – gli eventi di queste settimane negli Stati Uniti e non è possibile assistere alla scena di disperazione di June e di sua figlia senza pensare a quella reale e attuale di famiglie separate al confine.

Perché non mi hai cercata di più?

In pochi minuti assistiamo alla confusione di una bambina che pensava di essere stata dimenticata dalla madre, al calore di un abbraccio che avrebbe potuto non avvenire più e al coraggio di una madre in grado di proteggere sua figlia anche in quei brevi istanti. La recitazione di Elisabeth Moss è, come sempre, eccellente e il dolore che percepiamo assistendo a questi momenti deve ricordarci chi lo sta vivendo sulla pelle ora.

Pensi che non ti rivedrò mai più?

Potremmo fermarci nella nostra analisi, focalizzandoci esclusivamente su quelli che rappresentano i pilastri fondamentali – tanto da spingere Hulu e la stessa Elisabeth Moss ad avvisare gli spettatori che questo episodio avrebbe potuto essere particolarmente disturbante – eppure ci sono vari spunti che preferiamo raccogliere, a corredo di quanto detto.

Eden non ha mai fatto tenerezza come in questo episodio. La moglie di Nick è una bambina figlia dell’indottrinamento che non comprende come sia possibile che il marito non la ami e che si lascia legittimamente attrarre dal potenziale calore umano offerto da un altro uomo: le sue lacrime segnano, perché sincere e disperate e anch’esse figlie del vero volto di Gilead. Il ruolo dell’autista, vista anche la scena finale, è sempre più complesso e delicato: un brav’uomo in una posizione difficile, incapace di accettare passivamente e impossibilitato ad agire come vorrebbe. Le brave persone non fanno una buona fine in Gilead e il timore per il suo destino è legittimo.

Emily si trova nella macabra situazione di vedere il suo comandante morire subito dopo la cerimonia: la sua reazione, comprensibile e oltremodo soddisfacente, ci pone però una pulce nell’orecchio, complice anche una scena mostrata nel previously dell’episodio che, altrimenti, non avrebbe vero motivo d’essere ripresa. L’ancella, già membro della rete ribelle, aveva affermato che tutti i responsabili, in Gilead, avrebbero dovuto morire come le vittime dell’attentato: non è un’ipotesi azzardata pensare che la morte del suo comandante non sia stata del tutto casuale.

Un’ultima considerazione, stavolta legata a Fred. Durante l’attesa della – poi mancata – nascita, i comandanti si trovano a festeggiare con tanto di sigari e un breve scambio attira l’attenzione: un altro membro dell’elìte è stato recentemente promosso perché sua moglie è rimasta incinta, dimostrandosi così una delle poche famiglie autosufficienti tra gli appartenenti al governo. Il volto di Waterford, alla notizia, esprime fugacemente un rammarico e una frustrazione che, di nuovo, ne evidenziano l’infimo spessore: fallite le trattative col Canada, sostituito – in meglio – da sua moglie e dall’ancella e neanche in grado – come ribadisce con soddisfazione la stessa June – di procreare. Un complesso di inferiorità e inadeguatezza che lo rendono forse uno dei personaggi potenzialmente più pericolosi, come hanno dimostrato lo stupro odierno e la punizione a Serena di due episodi fa.

Robert A. Heinlein, decenni fa, scriveva “non spaventare un piccolo uomo, ti ucciderà”: accanto a questa citazione sarebbe legittimo inserire una foto di Fred Waterford.

L’episodio si chiude in una situazione disperata: Nick portato via di forza e June – incinta di nove mesi – sola in mezzo al nulla. Non sappiamo cosa aspettarci, ma a tre episodi dalla fine non c’è limite a quanto le cose possano ulteriormente precipitare.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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