Westworld: 2×08 Kiksuya

Una dichiarazione d’intenti in una parola, il titolo di questo ottavo episodio di stagione, non solo per il significato del termine stesso, ma anche per la lingua in cui è espresso; kiksuya infatti è una parola della lingua Lakota che significa “ricorda” e l’intero episodio è un lungo percorso nella memoria di uno dei personaggi più misteriosi di tutta la serie, Akecheta, il capo dell’inquietante Ghost Nation.

Quello che potrebbe apparire, ad occhi più superficiali, un episodio riempitivo è invece un importante elemento di passaggio e di risposta ai tanti interrogativi che si andavano accumulando e ad altrettanti che, nella piena tradizione di Westworld, neanche sapevamo di avere.

Punto di partenza, nuovamente, è il Labirinto, il simbolo che fu centrale nel risveglio di Dolores e che già avevamo visto inciso in uno scalpo all’inizio di questa stagione. La storia di Akecheta ci dimostra che il potere di quel disegno non era esclusivamente simbolico o strettamente legato all’attuale Wyatt, bensì qualcosa di più universale, una sorta di codice di sblocco in grado di rendere gli host predisposti – in tempi più o meno brevi e modalità più o meno complesse – al risveglio.

[pullquote]Un dolore travolgente che in altri avrebbe scatenato istinti di vendetta e che invece in Akecheta provoca un’epifania empatica[/pullquote]

Mentre, quindi, ci focalizzavamo sulla storia dei due risvegli principali, quelli di Dolores e Maeve, dietro le quinte eppure in piena vista se ne svolgeva uno per certi versi molto più doloroso e drammatico, che in Kiksuya ci viene mostrato in tutta la sua profondità e con tutta la sofferenza che ha comportato.

Akecheta, incrociato per caso il labirinto, comincia a prendere coscienza di sé e, una volta cambiata la narrativa a lui assegnata, a ricordareesattamente come Maeve: ricordare l’amore che gli apparteneva, ricordare l’esistenza che sapeva essere sua in contrapposizione al mondo sbagliato a lui riassegnato. Come un filo che cuce un abito su misura, le vicende del Lakota si intrecciano per trent’anni con quelle di host e avventori che ben conosciamo. È il momento della morte di Arnold per mano di Dolores a portarlo a vedere il labirinto, è l’incontro con un Logan preda di deliri da insolazione a suggerirgli il concetto di mondo sbagliato ed è il finale incontro con Ford a dargli l’ultima missione di portare in salvo il proprio popolo quando il portatore di morte tornerà a colpire, ovvero quando Wyatt/Dolores avrà ucciso Ford stesso alla fine della stagione precedente.

Molti sono i livelli di lettura di Kiksuya, ma due sono quelli che ci premono di più. Il più semplice e doloroso è il percorso di ricerca inizialedi Akecheta, volto a ritrovare la donna amata e la loro vita insieme. Le memorie riaffiorate alla luce gli fanno ricordare del loro passato e lo portano a risvegliarla grazie a parole appartenenti al loro cuore, per poi perderla di nuovo e cercarla ovunque, fino ad andarla a recuperare dall’altro lato della morte, per scoprirne il corpo senza vita – destinato allo smantellamento – in una scena magistralmente interpretata da Zahn McClarnon. 

[pullquote]Akecheta diventa un novello e silente predicatore che conduce per oltre vent’anni i propri simili verso un risveglio promesso e atteso[/pullquote]

Un dolore travolgente che in altri avrebbe scatenato istinti di vendetta e che invece in lui provoca un’epifania empatica: il riconoscere che il suo dolore è uguale a quello di tanti altri che si sono visti togliere i propri cari, pur non sempre rendendosene conto. Da qui nasce la seconda ricerca, quella più profonda, spirituale e quasi religiosa: il significato della propria esistenza, la porta verso un mondo migliore in cui ritrovare chi ci appartiene e abbiamo amato, il proselitismo della consapevolezza; Akecheta diventa così un novello e silente predicatore che conduce per oltre vent’anni i propri simili verso un risveglio promesso e atteso, cui pietra miliare è la morte del creatore stesso.

Una luce nuova e fondamentale sulla Ghost Nation, che passa dal ruolo di inquietante minaccia a qualcosa di ben più tridimensionale e significativo mostrandoci quanto, in realtà, il risveglio e la consapevolezza non siano mai state ad esclusivo appannaggio di Dolores e Maeve. Toccante e amaro, poi, lo scoprire l’incomprensione alla base del terrore di quest’ultima nei confronti dei Lakota: scopo di Akecheta era sempre stato di proteggere la giovane figlia, ma non aveva fatto in tempo a dimostrarlo prima dell’arrivo distruttivo di William.

Di lei, in questo episodio di Westworld, vediamo poco, ma gli istanti che la riguardano non passano certo inosservati: un po’ perché vedere Sizemore commosso per la sua sorte è un evento in sé, ma anche per il dialogo a distanza, più intuìto che mostrato, che chiude il cerchio tra lei e Akecheta.

Rimangono da sottolineare alcuni aspetti più prettamente tecnici, che quasi stonano con il resto dell’analisi, ma che non possono non essere menzionati.
In primis, ci si interroga sulla natura della memoria e del risveglio: risulta chiaro che gli host più antichi sono quelli più soggetti ad accedere a ricordi che avrebbero dovuto essere stati cancellati; nel caso di Akecheta e, possiamo supporre, anche di altri, l’anomalia è anche più profonda, non avendo in realtà subito reset per decenni, neanche in fase di riassegnamento: la personalità del Lakota non è mai stata cancellata del tutto, andando a stratificare esperienze e memorie per decenni.

[pullquote]Il cambiamento nasce sempre da un errore, non dalla perfezione fine a se stessa[/pullquote]

Verrebbe da pensare che la presa di coscienza sia un misto di errore umano e di evoluzione interna scatenata dal labirinto, ma sarebbe un sottovalutare il concetto stesso di evoluzione; il cambiamento nasce sempre da un errore, anche infinitesimale: l’evoluzione è basata sugli errori, non sulla perfezione fine a se stessa, per cui il dubbio sulla natura della consapevolezza degli host, almeno per quanto riguarda Akecheta, finisce per non aver senso. Il Lakota si è svegliato, altro non conta, come lo stesso Ford ha finito per dedurre. D’altronde, la stessa memoria della sua amata Kohana ritorna non per aver visto il labirinto, bensì per aver sentito pronunciare parole legate al loro amore. Il labirinto è una chiave, ma non la sola esistente, molto più importanti sono le esperienze radicate nel passato degli host, che finiscono per dar loro quella base di coscienza che è parte integrante del nostro stesso bagaglio personale.

La seconda questione riguarda Maeve: l’abbiamo vista ormai morente e tutto lascia pensare che non sopravviverà. Il suo software, però, è evoluto – di nuovo questa parola – in modo imprevisto e non è detto che Charlotte Hale sia disposta a perderne le funzionalità, considerando anche l’assenza di backup causata dalla distruzione della culla.

Nota finale per William: il suo ruolo sta sempre più delineandosi come quello di un uomo piccolo e vuoto che ha inseguito una chimera per tutta la sua vita distruggendo, nel mentre, ciò che non comprendeva e ciò che di bello e reale poteva avere nella sua esistenza. L’arrivo della figlia a portarlo via, debole e ferito, solo con lo scopo di farlo soffrire è esemplificativo culmine di quanto detto e la comunione di intenti con Akecheta pone il sigillo di conferma.

Sempre più, in questa stagione, Westworld mostra una volontà di esplorare e raccontare che va ben oltre le semplici vicende dalla ribelle Dolores e della strage conseguita, focalizzandosi più sui vari aspetti del concetto di umanità. Da un lato quella neonata degli host, alla ricerca di una mortalità che li renda più reali e di un significato che vada oltre la propria programmazione, dall’altro quella scontata e svuotata degli uomini: incapaci di darle il valore che merita eppure tentati dal volerla prolungare a tempo indefinito. Chi sarà, davvero, da considerarsi umano alla fine di questa stagione? Gli host, i loro creatori, o chiunque abbia lottato per essere considerato tale?

Piccola aggiunta per gli interessati: la canzone suonata al pianoforte al risveglio di Akecheta è Heart-Shaped Box dei Nirvana, nella solita splendida commistione di generi a cui ci ha abituato Ramin Djawadi.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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