Chelsea Hotel – Viaggio nel palazzo dei sogni
Io spero che molti tra coloro che leggono queste righe sappiano cos’è il Chelsea Hotel.
A beneficio di chi non lo sapesse, riassumo (molto) dicendo che si tratta di un albergo sulla 23ma strada a New York che, fin dalla nascita, fu in qualche modo destinato a un’esistenza particolare, fino a diventare il centro vitale della popolazione artistica e alternativa della Grande Mela.
La lista di nomi di persone che hanno soggiornato anche per decenni al Chelsea è lunghissima e va da Arthur Milller a Dee Dee Ramone, da Patti Smith a Leonard Cohen, da Andy Warhol a Harry Smith ad Arthur C. Clarke (fu al Chelsea che venne scritto 2001 Odissea nello spazio, per capirci).
Il Chelsea fu a lungo fulcro e crogiolo delle menti più creative, folli e problematiche che New York potesse accogliere o sfornare.
Al Chelsea nessuno si faceva domanda sui gusti sessuali altrui, la diffusione di droghe era paragonabile a quella dell’acqua e il direttore poteva decidere di posticipare il pagamento dell’affitto a oltranza, se pensava che un artista avesse bisogno di concentrarsi sulla propria opera o di investire i suoi pochi soldi in attrezzature.
Gli stessi locali dell’albergo divennero spesso e volentieri opere d’arte o luoghi dove tali opere venivano create e/o esposte.
Questo in breve.
In vista del terzo viaggio a New York, quindi, ho colto l’occasione per comprare e leggere questo saggio di Sherill Tippins che prometteva di condurre il lettore per mano nella storia di questo strano hotel.
Partiamo dagli aspetti positivi: la Tippins ha fatto molte ricerche e ha recuperato una mole di informazioni di prima e seconda mano impressionante, informazioni che non è restia a condividere.
Pure troppo, oserei dire.
Già, perché per il desiderio di raccontare tutto si finisce, se non si è veramente molto bravi, a elencare una marea di fatti tale che il lettore finisce sommerso, senza riuscire spesso a metterli in relazione di causa/effetto o di importanza nell’insieme più ampio.
La Tippins ha ritenuto necessario, parlando dei singoli ospiti, raccontare non solo della loro permanenza all’albergo, ma anche della loro vita precedente, di quella successiva, delle intenzioni artistiche, a volte anche della vita di alcuni familiari; peccato che, così, abbia tolto esattamente ciò che sperava di trasmettere: l’anima del posto.
Ci si trova a scoprire tante informazioni, tanti eventi, tante scelte, ma non si riesce mai né a empatizzare coi vari protagonisti della storia, né a comprendere il motivo per cui il Chelsea, col tempo, divenne tanto particolare.
Ci sono i motivi “pratici”, certo, ma gli aspetti più interessanti, quelli umani, quelli emotivi si perdono via.
Il risultato è un racconto dettagliato, preciso, informativo (pure troppo), ma sostanzialmente asettico, di un luogo che tutto è stato tranne che asettico.
Si potrebbe pensare che la scelta sia stata fatta, in qualche modo, per dovere di cronaca, ma ho il forte dubbio che non sia così: la Tippins sembra sforzarsi più volte di comunicare l’aspetto emotivo e sentimentale del Chelsea, solo che non ci riesce.
Per di più qualche volta si nota la sua tendenza a cambiare in aumento o in diminuzione l’importanza di certi eventi a seconda che l’artista di cui sta raccontando rientri più o meno nelle sue grazie: il modo in cui, ad esempio, sminuisca spudoratamente molti comportamenti più che opinabili di Arthur Miller è quanto meno imbarazzante.
Quel che manca poi, a mio avviso, è lo sguardo delle altre persone.
Chi al Chelsea lavorava, chi in quel luogo ha vissuto non solo come artista ma anche come “protagonista sullo sfondo”, chi potrebbe ben spiegare certi retroscena dal punto di vista umano: una mancanza difficilmente perdonabile a fronte di un lavoro di ricerca tanto minuzioso, indubbiamente frutto di una scelta più che di un errore involontario.
Discorso a parte, stranamente, vale per il capitolo finale, l’epilogo.
Qui la Tippins, abbandonati i registri dei capitoli precedenti, sembra lasciarsi un po’ più andare e le emozioni della fine dell’epoca del Chelsea riescono ad arrivare al lettore.
Troppo poco e troppo tardi, purtroppo.
Non è un libro da bocciare del tutto, questo no. Si tratta di una miniera di informazioni ben ricercate. Il problema è che si tratta solo di questo, ecco.
(E stavolta, oltre alla copertina, metto pure un paio di foto del Chelsea scattata da me qualche anno fa 😉 )