74. The Meyerowitz Stories
In quanto modi si possono raccontare famiglie problematiche? Probabilmente infiniti, se andiamo a contare quanti film, libri e serie tv sono stati creati incentrati sull’argomento.
Eppure sembra sempre ci sia sempre qualcosa in più da raccontare o da mostrare, un diverso punto di vista, uno scorcio un po’ differente da cui guardare una storia.
The Meyerowitz Stories, disponibile in esclusiva su Netflix, cerca di fare esattamente questo e lo fa in modo discreto, intelligente, con un’ironia a volte brillante e altre amara che non nasconde la drammaticità dei momenti.
Dustin Hoffman è Harold, uno scultore che ha avuto per un periodo un discreto successo per poi ritrovarsi dimenticato con l’età, stratificando nel proprio animo una frustrazione per quei riconoscimenti che ha sempre ritenuto di meritare e mai ricevuto.
A farne le spese, fin dall’infanzia, i figli, nati da matrimoni diversi e che, pur essendo stati trattati in modo molto diverso tra di loro, sono cresciuti con un persistente senso di inadeguatezza instillato da un genitore mai presente e sempre pronto a criticare le scelte e le inclinazioni di ognuno di loro. Mai sufficientemente creativi, mai sufficientemente preparati, mai realmente adeguati a vivere, indipendentemente dai successi personali o lavorativi che possono aver raggiunto.
Diviso a capitoli, The Meyerowitz Stories ci mostra prima lo status quo iniziale, la situazione da cui parte la famiglia nel momento in cui la conosciamo, per poi stravolgerlo lentamente ma costantemente, con una seconda parte quasi interamente incentrata sulla malattia prima e sull’incidente poi di Harold, che porta i figli a confrontarsi tra di loro, a riconoscere similitudini e differenze, a gestire i contrasti e a imparare che nessuno di loro è mai stato davvero in qualche modo in vantaggio rispetto agli altri, tutti vittime dello stesso tipo di sofferenza, solo con forme diverse.
Il film racconta perfettamente le frustrazioni che uomini adulti si trovano a provare quando si rendono conto che le ferite emotive causate dai genitori non possono guarire semplicemente ignorandole e che, per riuscirci, per venire a patti con ciò che si è sofferto, si può e si deve arrivare a comprendere che un genitore è anzitutto una persona con tutti i difetti e le mancanze del caso, il che non può certo far guarire, ma può aiutare a far perdonare.
Ma anche a trovare una via, cosa che il film suggerisce nell’ultimo atto.
Perché quando ci si trova davanti a momenti di crisi vera, quando quelle crisi ci cambiano e ci mettono a nudo come avviene ai fratelli in occasione della potenziale morte del padre, tornare a ciò che si era non è possibile. Noi non siamo più quelle persone e quel ruolo, quello spazio, quelle situazioni ci risulteranno strette.
L’unica soluzione è uscirne, fare scelte nuove, spezzare catene autoinflitte nella convinzione che prima o poi lui si accorgerà di noi, in quella ricerca di un’epifania che troppe volte resta un desiderio irraggiungibile.
Il film finisce per dire esattamente questo: che i traumi che abbiamo subito ci possono avere influenzato nella nostra vita e nelle nostre scelte, ma che la libertà nasce dall’accettarlo, dal perdonare chi non è in grado di cambiare e nel proseguire per la nostra strada senza sensi di colpa che non ci spettano.
Diretto da Noah Baumbach e forte di un cast non indifferente, con nomi come Dustin Hoffman, Emma Thompson, Adam Sandler, Ben Stiller ed Elizabet Marvel, The Meyerowitz Stories non è forse un capolavoro, ma riesce nell’intento, è ben recitato e tocca corde sensibili più volte.
– Perché sei rimasta con lui dopo tutto quello che ha fatto?
– Perché sono una brava persona e le brave persone fanno così