55. Li chiamano imprevisti

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Già ci sono giornate che, per loro natura, per buona parte non si preannunciano eccezionali. Fa parte del pacchetto, si sa, si gestisce.

Però.

Uno magari spera che le cose vadano quanto meno lisce pur nel loro non essere eccezionali.

Poi arrivi alla macchina e il bagagliaio non si apre.

E un attimo dopo scopri che è proprio l’auto a non aprirsi, se non con la chiave.

Il sospetto atroce si fa strada, guardi il quadro, più spento del verde muschio di una Panda del 1980.

A questo punto si inseriscano improperi ad libitum.

Ma non c’è problema, si chiama il booster che aiuterà a risolvere.

30 minuti di attesa, che problema c’è?

Ma poi i minuti diventano 50 e quando arriva ti supera, si piazza 50 metri avanti, ti chiama sul cellulare e scopri che è arrivato in bmw station wagon manco stesse andando a fare una vacanza. Che poi magari sì e l’ho interrotto, vai a sapere.

La mia macchina è in fondo a una discesa, lo spiego al tizio che la raggiunge non ritenendo opportuno chiedermi se voglio salire in macchina con lui. Ma sì, camminare fa bene, soprattutto quando devi smaltire il rodimento di culo.

Scende, si avvicina alla macchina, la guarda e mi fa ”ma non si accende neanche una luce? Allora mica ce la facciamo a farla partire”.

Ora. Io non sono un meccanico, né un elettrauto, ma sono ragionevolmente sicuro che se dico che la batteria è a terra, vuol dire che la batteria è a terra, defunta, kaput, non emette alcun tipo di segno di vita. E, dato che mi è già capitato, sono anche ragionevolmente sicuro che se attacchi quel cazzo di starter poi si accende.

Comunque gli rispondo, dato che ha il coltello (o meglio lo starter) dalla parte del manico, e gli spiego che no, è scarica del tutto, perché ho lasciato i fari accesi tutta la notte.

Io non so di preciso cosa ci sia nel suo sguardo di risposta. Forse compassione, forse disprezzo, forse delusione, probabilmente un misto delle due. D’altronde sono un maschio di quasi 50 anni, dovrei conoscerei basilari. Ho ai suoi occhi portato vergogna all’intera categoria. Lo so. Chissà se gli dico che da nerd sono esentato, magari ci crede.

COMUNQUE.

Attacca il coso e, guarda caso, la macchina si accende. ”Mica ce la facciamo”, eh? Tsè.

Va beh, a questo punto si parte, facciamo le centinaia di chilometri non prima di aver fatto anche una call di lavoro in un autogrill dove per poter mangiare vegetariano sono costretto a mangiare mozzarella e patate: non che mi facciano schifo a prescindere, eh? Ma magari a uno rode un po’ non poter scegliere in maniera più varia.

MA NON IMPORTA.

Si arriva a casa, finalmente.

Stanco, ma convinto che ormai sia tutto in discesa.

Ed è effettivamente in discesa è la direzione della tapparella dello studio che decide di dire addio alla corda mentre la sto sollevando. Il mozzicone mi rimane in mano. Ho l’impressione che i buchi della tapparella caduta stiano formando un dito medio, ma non posso esserne sicuro.

L’ora e passa successiva mi vede all’opera nella riparazione che consiste, in ordine sparso, in:

  • Rimuovere il pannello di copertura, tanto carico di polvere da avere tre strati sulle mani dopo due secondi di contatto
  • Sollevare la tapparella caduta: essendo da solo ciò ha implicato infilare le mani sotto i pannelli, sollevare di forza, infilare un oggetto per tenerla un po’ sollevata (un secchio. sul davanzale della finestra), salire sulla scala, arrotolarla a forza, bloccarla in qualche modo. Qualche modo significa in questo caso incastrare un cacciavite tra la suddetta tapparella e la parete superiore, augurandomi non si sganciasse nel momento in cui le mie manine dolci erano in mezzo.
  • Staccare tutti i residui di corda dal meccanismo superiore.
  • Smontare il meccanismo inferiore e staccare pure da lì.
  • Recuperare una corda nuova (fortunatamente senza uscire di casa), forarla per poterci inserire la vite (non avete idea di quanto ci voglia), arrotolarla sul meccanismo a molla. Arrotolarla sul meccanismo a molla. Arrotolarla sul meccanismo a molla. Non, non mi sono sbagliato, è il numero di volte in cui l’ho dovuto fare. O quanto meno finché non ho smesso di contare.
  • Infilare l’altra parte della corda nella fessura superiore, farla girare attorno al perno e legarla. Cercando di non tagliarmi, magari.
  • Smontare il pannello precedentemente montato perché ovviamente la cinghia si era attorcigliata.
  • Condire con smadonnamenti vari ognuno dei punti precedenti, includendo la mia impossibilità evidente di rispondere ai messaggi che intanto arrivavano perché ne andava della sopravvivenza mia e della tapparella.

Giunto a questo punto ritengo di essere ragionevolmente motivato a ritenere il 7 luglio 2022 una giornata abbastanza di merda.

Se non ci sono obiezioni, l’udienza è tolta.


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Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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