Chiamami col mio nome

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Un paio di anni fa mi sono confrontato con una persona al riguardo delle definizioni di genere e di orientamenti sessuali: in particolare ero molto colpito non solo dal moltiplicarsi di tali definizioni ma di come, in alcuni casi, mi sembrasse che rischiassero di essere più negative che positive, facilitando in determinate situazioni una sorta di gatekeeping, di autorizzazione o meno (proveniente dall’esterno o dalla propria sensibilità) nel porsi sotto una certa definizione. Non capivo, sostanzialmente, perché fosse necessario dare un nome a ciò che si era e non semplicemente essere.

La risposta mi fece capire come mi stessi ponendo il problema dal punto di vista sbagliato: il problema non era e non è il riuscire o meno a entrare in una certa definizione, il problema sta nel concetto di riconoscimento; se un qualcosa ha un nome, quella cosa implicitamente esiste, ma se non ce l’ha allora se ne sta negando l’esistenza.

Ieri mi è tornato alla mente questo scambio – e il percorso di approfondimento che ho fatto a seguire – dopo aver letto questo post https://www.instagram.com/p/Cat-eRxNcLS/?utm_medium=copy_link di Silvia Colaneri, che riporta alcuni passi di uno dei saggi inclusi in ”Le filosofie femministe”, di Adriana Cavarero e Franco Restaino, di cui trovate la sua recensione in quest’altro post https://www.instagram.com/p/Cau8Z3WtMcA/?utm_medium=copy_link.

Nell’estratto riportato nel primo link si evidenzia come il linguaggio stesso abbia da sempre descritto un mondo non a misura di donna, in cui questa è estranea, al massimo rappresentata per omissione, accessoria e gravitante rispetto a chi il linguaggio l’ha plasmato e, con esso, la realtà: ed è questo il concetto che secondo me finiamo per dimenticare in troppi casi; come dicevo commentando il post io – ma penso molti di noi – sono cresciuto convinto che il linguaggio fosse lo strumento per descrivere la realtà, che fosse un risultato passivo del mondo che ci circonda.

La verità è diversa: la lingua definisce la percezione di realtà, definisce il modo in cui la percepiamo, cambia la definizione stessa di verità riconosciuta. Andate a rileggere 1984 per avere l’esempio più banale e lampante. Ma pensate anche a come certe lingue abbiano parole per definire oggetti, situazioni, anche emozioni che altre non hanno: perché in questo modo danno realtà e riconoscimento a quelle esistenze.
Quando diciamo che la storia è raccontata dai vincitori è esattamente questo. Quando guardiamo la censura russa stiamo parlando di questo. E – se questo vi farà storcere il naso vorrà dire che vi sta toccando sul vivo – quando parliamo di pronomi, di utilizzo corretto dei generi, di rispetto delle parole scelte per definire il proprio orientamento sessuale, di riappropriazione del genere femminile in molte professioni, di ricerca di nuove soluzioni linguistiche a definire una realtà molto più complessa (vedi le polemiche sullo schwa) stiamo – di nuovo – parlando esattamente di questo.

Provate a fermarvi un attimo e a pensare di non potervi definire. Di non poter dire in una parola (o in poche parole) ciò che siete: il vostro lavoro, la vostra identità, il modo in cui vivete le vostre relazioni interpersonali. Pensate di dover spiegare ogni volta qualcosa che vi identifica e di doverlo fare usando parole che non si adattano a voi, perché non esistono quelle giuste. Pensate di farlo per tutta la vostra vita. Pensate di vivere in una società che non ha parole e non vuole parole per descrivere ciò che siete. Vi sentireste elementi principali di quella società oppure vi considerereste, se va bene, secondari o, peggio, indesiderati?

Focalizzarsi sul linguaggio è e deve essere parte integrante della ridefinizione di ciò che non va, della ricostruzione del nostro mondo percepito affinché rispetti quello reale: la lotta linguistica non è un problema secondario, non è un attaccarsi a cavilli, non è qualcosa che si possa archiviare con un semplice ”si è sempre fatto così”; anzi, se l’unica risposta che si sa dare è ”si è sempre fatto così” si sta fornendo il preciso motivo per cui è giunto il momento di cambiare, perché ciò che si è sempre fatto ci ha condotti dove siamo, perché la lingua che conosciamo e usiamo non è fatta per descrivere appieno la complessità di una realtà che già era complessa ma che si è scelto attivamente di voler ignorare a favore di un gruppo privilegiato.

Vale per le lotte femministe, vale per le lotte LGBTQ+, vale per ogni lotta in cui la lingua è plasmata da altri.

Quelli che hanno scritto la storia, appunto.


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Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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