The Man In The High Castle Season 4: la fine, nel bene e nel male

L’annuncio che la quarta stagione di The Man In The High Castle sarebbe stata anche l’ultima fu accolto da chi scrive con speranza. Non perché la serie non fosse di qualità, ma perché si è trattato fin dall’inizio di uno di quei prodotti che necessita di avere un percorso completo prima di perdere la sua identità: un rischio che sta correndo pericolosamente il suo omologo The Handmaid’s Tale, ad esempio.

La decisione di arrivare a un finale, giunta prima della produzione, avrebbe inoltre potuto permettere concludere le varie vicende in atto in modo adeguato e progressivo, senza trovarsi davanti a una di quelle situazioni sospese figlie di un cambio di rotta improvviso. Il risultato, a conclusione avvenuta, conferma le speranze, ma lascia comunque qualche perplessità sulla gestione complessiva della stagione e, a conti fatti, dell’intera serie.

La prima, enorme, giunge dal modo in cui è stato tagliato il personaggio di Tagomi fin dall’episodio iniziale. È evidente che la scelta di escludere Cary-Hiroyuki Tagawa non sia stata solo narrativa: quando anche la scena della morte di un protagonista avviene fuori scena e nessuna inquadratura ne mostra il viso significa che ci sono stati cambiamenti (non possiamo dire se nati dall’attore o dalla produzione) che hanno portato all’interruzione completa della collaborazione.

Quando ciò avviene l’impatto narrativo non è indifferente, soprattutto se riguarda un personaggio che aveva un ruolo fondamentale nella storia raccontata nelle prime tre stagioni e le scelte fatte per gestirlo danno una fastidiosa impressione di pezza non ben cucita sul buco che deve coprire.

Quali che siano i motivi alla base di questo cambio di rotta, l’inizio della stagione si è trovato a gestire una doppia problematica: riprendere in mano le fila della storia e, contemporaneamente, ridirezionarla in modo da tamponare la nuova mancanza; non per niente i primi episodi sono senza ombra di dubbio quelli più lenti e che fanno maggior fatica a ingranare e ad attirare l’attenzione dello spettatore.

Il secondo aspetto che ci lascia parzialmente interdetti è l’impressione che la stagione abbia, come già accaduto in passato, fatto molta fatica a trovare una propria identità e a gestire un parco di personaggi che non solo era già piuttosto ampio – nonostante diverse morti eccellenti – ma che è stato ulteriormente espanso proprio in questi ultimi dieci episodi, con l’introduzione tardiva della BCR, la Ribellione Comunista Nera, che in passato era stata solo citata fuori scena.

L’importanza della BCR è fondamentale nel nuovo corso narrativo e i suoi personaggi sono introdotti in modo credibile, ma la sensazione è che si potesse fare molto di più e molto meglio se tale introduzione fosse avvenuta quanto meno nella terza stagione se non addirittura nella seconda: quando personaggi nuovi diventano veri e propri elementi di sovvertimento e sblocco della trama si sfiora pericolosamente il rischio del deus ex machina o, quanto meno, della salvezza provvidenziale giunta dall’esterno, rischiando così di buttare alle ortiche una costruzione durata quattro anni.

Il personaggio che più paga le conseguenze della nuova rotta è indubbiamente quello di Juliana, la cui utilità per buona parte della stagione è pressoché nulla: il suo periodo nel mondo alternativo viene velocemente dimenticato così come la sua capacità di spostarsi tra le dimensioni a piacimento, abilità che le sarebbe stata utile in più di un’occasione da metà stagione in poi. Sostanzialmente il suo ruolo è quasi esclusivamente di ispirazione o istigazione per gli altri personaggi, siano essi Helen, Wyatt o altri membri della Ribellione. Troppo poco per una protagonista attorno la quale la serie ha girato per l’intero suo corso.

Ben diverso, invece, il trattamento riservato alle due facce della stessa medaglia: il John Smith del bravissimo Rufus Sewell e la sua controparte Kido, un Joel de la Fuente che in questa stagione ha dato il meglio di sé. La storia si è andata concentrando sulla veloce caduta in parallelo dei due personaggi, sempre più prigionieri di ruoli che non hanno mai veramente contestato, seppur per motivi diversi.

Smith è senza dubbio lo sconfitto della serie e il viaggio nelle sue memorie non può che accentuare il disprezzo complessivo nei suoi confronti, anche e soprattutto avendo davanti agli occhi la sua versione alternativa.

Fin dalla prima stagione ci eravamo chiesti come fosse possibile che militari dell’esercito statunitense, dopo la sconfitta per mano dell’Asse, fossero diventati esponenti di spicco del Reich e finalmente abbiamo avuto una risposta, tanto semplice quanto agghiacciante: per disperazione. Ridotti alla fame, consapevoli che la morte si trovava ormai dietro l’angolo, Smith e molti suoi commilitoni decisero di vendere la proverbiale anima al diavolo, accettando l’offerta di entrare nell’esercito nemico pur di garantire l’incolumità a loro stessi e alle loro famiglie.

La vera discesa nell’oscurità di Smith si ha però poco tempo dopo, nel momento in cui per codardia ignora la richiesta d’aiuto dell’ex-amico e commilitone Daniel condannandolo a morte certa. Il passaggio dall’inghiottire una pillola amara ma apparentemente indispensabile al prosperare sul nuovo corso mondiale senza neanche far davvero finta di non vedere è più breve di quanto possa sembrare e trascina facilmente con sé negli anni anche Helen e, col tempo, quasi tutti i figli.

Non c’è nulla di addolcito in questo approfondimento relativo a Smith, che neanche di fronte alla propria versione migliore – della cui morte è causa indiretta – trova la via per redimersi, ma anzi accelera lungo la strada della distruzione.

Di segno opposto ciò che avviene a Helen. Se nelle stagioni passate era stata poco più che un accessorio del marito, la sua evoluzione a partire dal sacrificio di Thomas la porta a riaprire gli occhi e vedere ciò che davvero è diventata, complice lo sguardo disilluso e sincero della figlia maggiore.

Helen non ha bisogno di vedere la propria versione migliore perché la sua coscienza continua a ricordarle ciò che è diventata. Si potrebbe obiettare, e lei stessa lo fa messa alle strette da Jennifer, che il suo ravvedimento è figlio dell’essere diventata vittima della stessa sofferenza di cui è stata a lungo complice e nulla, nella serie, dice il contrario. Anzi, proprio perché certe colpe non possono essere facilmente espiate, Helen non esce viva dalla sua strada di espiazione e accetta di morire per fermare John, che solo alla fine riconoscerà l’orrore che è diventato in confronto alle varie versioni alternative dei mondi paralleli.

Si diceva sopra che un percorso simile viene fatto da Kido, ma con esiti e conclusioni almeno in parte opposti. L’Ispettore Capo, pur essendo quasi sempre stato un vero e proprio villain, ha anche mostrato una crescente tridimensionalità e stratificazione. Pur non potendo negare nessuno degli orrori di cui si è reso responsabile o anche solo complice, Kido è un uomo d’onore, disposto a qualunque cosa pur di proteggere il proprio Paese e il proprio Imperatore, anche a dispetto delle convinzioni personali. Non per niente il rapporto col ministro Tagomi era uno dei meglio riusciti, grazie alle dinamiche di due uomini tanto diversi eppure entrambi votati a uno scopo sovrapponibile se non comune.

Nel corso di quest’ultima stagione Kido viene messo di fronte alla scelta tra proseguire su una strada meschina, mascherandosi dietro ordini di diretti superiori e un bene comune che tanto comune non è, o reagire a costo della propria incolumità in nome di una giustizia superiore e del proprio senso dell’onore. La scelta, non scontata, arriva in extremis e porta con sé la consapevolezza dei tanti errori e abomini commessi in passato tanto sul lavoro quanto nella vita privata.

È qui che le strade di Kido e Smith finiscono per separarsi definitivamente: dove il secondo decide di abbracciare la maschera e il potere, il primo accetta ciò che vede allo specchio, se ne assume le conseguenze e avvia un lungo percorso di espiazione che non lo renderà mai libero, ma che gli permetterà quanto meno di perseguire la pace con se stesso e coi suoi fantasmi.

Mentre non possiamo non menzionare quantomeno il personaggio di Childan, anch’esso cresciuto durante le stagioni, dobbiamo però anche sottolineare quanto l’ampio numero di personaggi e l’incerta gestione della trama abbiamo causato qualche approssimazione di troppo nell’utilizzo del negoziante e di altri comprimari: assurdo, ad esempio, che non sia mai stato menzionato Ed, della cui sorte restiamo all’oscuro, così come i vari protagonisti uccisi nelle stagioni precedenti. Lo stesso utilizzo di Abendsen non è del tutto soddisfacente, tirato fuori come un coniglio dal cilindro quando risulta necessaria qualche parola più o meno misteriosa e poi di nuovo passato nel dimenticatoio fino alla successiva esigenza.

Passando al finale vero e proprio, la sensazione complessiva è di un’eccessiva accelerazione concentrata nell’ultima puntata che contrasta violentemente con la lentezza della prima parte. Dal punto di vista emotivo non si percepisce come un difetto perché aiuta ad aumentare il pathos e l’ansia che tutto venga davvero portato a termine, ma narrativamente parlando avremmo gradito una miglior distribuzione dei tempi.

E magari che l’episodio terminasse trenta o quaranta secondi prima: la scena dell’attraversamento del portale, infatti, così com’è, più che porre domande – intenzione dichiarata di sceneggiatori e regista – appare insensata e decontestualizzata, tramutandosi più che altro in una sorta di messaggio metanarrativo.

Approved by Rufus Sewell (Finalized)

Concludendo, la stagione ha portato con sé gli stessi difetti di una serie che, però, è riuscita comunque a mantenere una qualità complessiva medio-alta, considerando anche che il materiale originale a cui attingere non era ampio. La non perfetta gestione dei personaggi e delle componenti narrative non la rende il capolavoro che avrebbe potuto essere, ma permette di annoverarla comunque tra le serie che meritano una o più visioni, soprattutto nel momento storico che stiamo vivendo.


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Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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