The Handmaid’s Tale: 3×11 Liars

Era ora. Questo è il primo commento che ci si sente di esprimere dopo il terzultimo episodio di stagione di The Handmaid’s Tale che, diciamolo subito, pur non essendo perfetto dà finalmente ciò che aveva promesso all’inizio e, soprattutto, lo fa concedendo una certa soddisfazione allo spettatore.

Che qualcosa si stesse muovendo era chiaro fin dall’inizio dell’episodio, anche se la direzione era tutt’altro che certa. La disperazione di Eleanor è struggente perché figlia di un senso di colpa non nato da azioni proprie bensì da azioni in parte subite e in parte non adeguatamente contrastate. Una brava donna nel luogo sbagliato col marito sbagliato, incapace di sopportare oltre l’intero vagone di abominio che Gilead rappresenta e di cui Lawrence è stato colpevole fautore.

Questa scena iniziale punta a ridefinire i rapporti di forza, rendendo Joseph Lawrence sempre meno sicuro e più disperato e, come in una sorta di vasi comunicanti della forza d’animo, June più carica e presente a se stessa.

Di nuovo la lucidità del personaggio torna dopo una caduta evitabile, in uno specchio di quanto già avvenuto nella seconda stagione che conferma l’assoluta inutilità di almeno metà degli episodi di questa stagione, e lo fa portando June a un confronto diretto con i vertici della rete di Martha, poco contenti di avere una scheggia impazzita tra le scatole. Ottimo il dialogo, soprattutto perché ci mostra finalmente che una ribellione è davvero in corso e che June ha, come sempre, una visibilità estremamente ridotta – e di conseguenza pericolosa – di ciò che la circonda.

Sei saltata su un treno in corsa e ora ti credi un cazzo di Che Guevara

La fuga successiva di Lawrence non è particolarmente degna di nota e funge esclusivamente da ulteriore spinta per il ridimensionamento dell’uomo: non siamo sicuri che questo totale avvilimento del personaggio di Whitford funzioni bene, ma si tratta di un’evoluzione necessaria all’avanzamento, per cui in questo caso ci tappiamo il naso.

Da metà episodio in poi, invece, cominciano i fuochi d’artificio, il cui antipasto è l’azione di convincimento svolta da June nei confronti di Billy, il classico contrabbandiere che si trova in qualunque luogo in cui la libertà è un miraggio. Di nuovo, per gustare il tutto è necessario sorvolare su qualche svarione: da June che cammina serenamente sui tacchi pochi giorni dopo essere stata claudicante al fatto che venga recuperato un abito adeguato senza colpo ferire, per non ribadire il suo improvviso ritorno alla lucidità dopo la follia che l’aveva attanagliata negli ultimi due episodi.

Una delle portate principali arriva poco dopo. Quando già ci stavamo rassegnando all’ennesimo stupro, potenzialmente anche più violento, stavolta per opera di Winslow, June reagisce e la colluttazione si conclude con la morte del Comandante e, cosa non scontata, l’Ancella riesce a mettersi in salvo grazie al provvidenziale intervento di una Martha che la riconosce come la persona che l’ha salvata dalle Colonie. Sì, una coincidenza un po’ tirata, ma in questo caso ci sta e non ce ne lamentiamo.

Ciò che va sottolineato è, invece, quanto la reazione di June sia il vero punto di svolta che – ci auguriamo – segna il momento del cambiamento definitivo della serie. June prova a dissociare mente e corpo come ha fatto più volte. Cerca di essere la se stessa arrendevole che è sopravvissuta fin lì. Ma quella donna non esiste evidentemente più e la nuova non è più disposta ad abbassare la testa. Molto probabilmente la spinta alla reazione nasce anche dal non aver più paura di morire e quindi non avere davvero più nulla da perdere. Hannah è lontana e June non sa se la rivedrà mai, ricordiamolo.

Se quindi un primo villain della serie viene tolto di mezzo velocemente e con soddisfazione, il momento di vera esaltazione lo si ha invece con l’arresto di Waterford in terra canadese.

Che qualcosa nel piano di Serena non fosse limpido come voleva apparire a Fred lo si era intuito da quello struggente abbraccio con la Martha di famiglia. Il viaggio in sé era invece servito a mettere in piena luce alcuni ulteriori aspetti di ipocrisia di Gilead su cui ci soffermeremo tra poco, mentre l’ultima notte insieme finisce per essere – col senno di poi – un’ennesima azione di manipolazione della vera mente della coppia.

A posteriori sembra abbastanza chiaro ciò che è avvenuto. Quando Serena, recentemente, aveva messo Fred di fronte a un ultimatum, il suo piano era ben diverso da ciò che aveva raccontato al marito. Ciò che aveva venduto come modo di portare avanti le trattative con un contatto personale era invece un vero e proprio vendere il marito al nemico per ottenere in cambio qualche vantaggio personale che, sicuramente, implicherà Nichole. 

Sebbene non venga mai esplicitamente detto che l’arresto era stato concordato prima sono troppi i segnali in quella direzione, inclusa la strana sicurezza della donna durante il percorso che li porterà oltre confine. Inoltre, un fotogramma circolato mostra come Luke sia presente all’arresto, con tutto ciò che ne consegue.

Inutile stare a sottolineare l’enorme senso di appagamento provato nel vedere finalmente Waterford arrestato per crimini di guerra e non solo e quell’odiosa espressione accondiscendente creparsi in un’espressione di rabbia e disperazione. Ciò che invece vogliamo far notare è come tutto ciò cambi pesantemente le carte in tavola.

Il fronte contro Lawrence era costituito dai due individui usciti di scena in questo episodio e questo non potrà non portare conseguenze, oltre alla diretta evoluzione che colpi di scena del genere porteranno – si spera – nella trama.

Facendo un passo indietro, focalizziamoci un istante su come varie scene dell’episodio siano in grado di sottolineare l’innata ipocrisia alla base di Gilead e soprattutto dei suoi fondatori.

Da una parte Lawrence. Si tratta di uno degli ideologi fondatori eppure fin da subito ha cercato per sé e sua moglie l’eccezione, la possibilità di non essere come gli altri e l’orrore, il vero orrore, l’ha colpito solo quando Gilead non gli ha più garantito quel nulla osta che dava per scontato.

Dall’altra Serena. Altra ideologa, coi suoi libri, passata dall’essere scrittrice di successo al trovarsi considerata inferiore a un marito inetto e viscido. Eppure, di nuovo, l’orrore di Gilead non la colpisce per la sua semplice esistenza, bensì solo quando si rende conto della sua perdita personale. La scrittura. La lettura. Una falange. La serenità per una figlia non sua che ritiene tale.

Per finire, sempre coi Waterford, al viaggio in auto. Ne godono. Esprimono tutte le loro lodi per Gilead. E lo fanno ascoltando musica vietata trasmessa da Radio America Libera. Come sempre, come in qualsiasi dittatura, chi è al potere o ne ha almeno una frazione può permettersi di dettare regole che seguirà il meno possibile.

Come dicevamo, questo episodio rimette The Handmaid’s Tale su una carreggiata troppo a lungo abbandonata. La qualità, nonostante alcuni difetti, ma sopratutto l’avanzamento della storia ci fanno ribadire che la lunghezza della stagione è stata gestita male, con episodi riempitivi che si potevano e dovevano evitare. Comunque sia, ora la speranza è che l’evoluzione e il ritmo narrativo proseguano in questa direzione non solo nei prossimi due episodi, ma anche nella quarta stagione recentemente annunciata.

L’orrore è stato sviscerato a fondo. Ora abbiamo bisogno della speranza e della giustizia.


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Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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