The Handmaid’s Tale: 3×06 Household

C’è qualcosa che non convince, giunti ormai a metà percorso della terza stagione di The Handmaid’s Tale. La qualità complessiva è sempre indiscutibilmente alta, la recitazione all’altezza e molti momenti sono pugni nello stomaco come e più di sempre, ma si ha l’impressione che non ci si stia muovendo.

Formalmente le vicende stanno procedendo, questo è vero, e lo spostamento dell’azione dai sobborghi di Boston a Washington DC permette di avere un ancor più scioccante scorcio di ciò che è davvero Gilead, eppure il senso di stagnazione inizia a permeare, evitato solo da alcune prestazioni attoriali di estrema qualità e da piccoli picchi narrativi che danno allo spettatore una piccola – per forza di cose – soddisfazione.

Il senso che manchi qualcosa non è però immediato, impegnati come siamo a essere colpiti in faccia dai nuovi scorci di Washington e dei suoi abitanti. Se a Boston la situazione era terribile, a Washington – rimasta capitale della nazione – il livello che si raggiunge è abominevole. Si abbandona definitivamente la facciata di un equilibrio malato per mostrare ufficialmente – se mai ce ne fosse stato ancora bisogno – il volto di una schiavitù cui manca solo l’essere nominata come tale. Così abbiamo le ancelle lasciate ad attendere in luoghi preposti e reclamate come una qualunque proprietà e, culmine dell’orrore, abbiamo i loro volti coperti per impedire che proferiscano parola, con la possibilità che le loro labbra siano letteralmente cucite tramite anelli di metallo.

Quest’ultimo orrore sembra colpire anche Aunt Lydia, che si conferma essere uno dei personaggi più complessi e contraddittori della serie. Come già abbiamo avuto modo di sottolineare, infatti, la donna ha sempre mostrato una propensione alla violenza e al sadismo gratuiti e lascia un po’ spiazzati vederla invece reagire con una sincera e palpabile sofferenza al trattamento subito dalle ancelle di Washington.

– Tu… vuoi che veniamo tutte zittite?
– No. Non lo voglio.

Sebbene la sua posizione venga in qualche modo spiegata in un toccante dialogo con June, non duole ricordare che si tratta della stessa donna che ha colpita l’ancella con un taser per pura rabbia e che ha portata alla clitoridectomia di Emily. Insomma, la clitoride sì, le labbra no. Quando si dicono le priorità.

Eppure, in qualche modo il personaggio è coerente con se stesso: autoconvintasi, come troppi veri credenti, di agire per un bene superiore, ogni male è giustificato dalla sua convinzione di fare qualcosa di giusto. Si tratta della miglior scusa morale per qualunque infamia, come possiamo riscontrare anche nel mondo reale, che dimostra ulteriormente come i concetti di bene e male, di giusto e sbagliato, nonché i limiti a ciò che si ritiene accettabile sono malleabili, soprattutto nelle menti di chi non ha una moralità empatica innata.

Che anche – e, a volte, soprattutto –  gli individui più spregevoli siano in grado di mostrarsi simpatici e gradevoli, nella sempiterna tradizione del “era una brava persona che salutava sempre“: lo vediamo seguendo i Waterford e il loro ingresso in casa Winslow. Il contrasto tra un sempre più odioso Fred che gioca coi bambini insieme all’ospite e la presenza di un’ancella con la bocca cucita nella magione la dice lunga su tale contrasto, così come stonano – in modo estremamente verosimile – le facciate di gentilezza e accoglienza del comandante interpretato da un ottimo Christoper Meloni e di sua moglie.

Ed è proprio in casa Winslow che vediamo l’ennesima dimostrazione di quanto Gilead sia facciata, a partire dal monito del Comandante a Fred. Nulla è cambiato veramente in Gilead, salvo chi detiene il potere e la trasformazione delle donne in schiave con una libertà più o meno apparente. Non è cambiato l’accaparramento di status quo, che ora viene amaramente rappresentato dal numero di figli che ci si può permettere di avere. Winslow ne ha cinque e ha ancora un’ancella in casa. “Privilegio del ruolo” dice Fred a una Serena più stupita che lucida sul vero significato di ciò che sta vedendo.

Ed è apparenza anche il desiderio di far tornare Nichole in casa Waterford, quanto meno da parte di Fred. L’uomo, opportunista come sempre, ha in realtà fiutato la possibilità di tornare sotto i riflettori dopo essere stato umiliato per la fuga della bambina e fa fatica a nascondere le sue aspirazioni anche a Serena, che ignora comunque i segnali, chiusa com’è nel suo mondo.

E si continua con l’apparenza nel portare all’eccesso i tanti video di preghiera registrati al fine di smuovere il Canada, fulcro centrale – almeno narrativamente – dell’episodio, ma non possiamo non citare anche una brevissima scena con un sottotesto evidente. Winslow, pur in modo sottile, fa delle chiare avances a Waterford: in una nazione in cui l’omosessualità è punita con la morte (o la mutilazione), è sufficiente essere un capo per sentirsi al sicuro. Niente di diverso, anche in questo caso, rispetto al mondo reale.

Punto focale dell’episodio è ovviamente la lotta per Nichole, con due focus separati ma in qualche modo interconnessi. Il tradimento di Serena ha per molti versi azzerato la potenziale crescita del personaggio ma, forse, è ciò che serviva per ridimensionare l’empatia nei suoi confronti. Ricordiamoci che la signora Waterford è stata alla base della creazione di Gilead, si è macchiata personalmente di decine di soprusi nei confronti di June ed ha sempre sostenuto il sistema attuale finché non ha dovuto pagarne personalmente le conseguenze. Il dialogo con la signora Winslow la porta ad avere una conferma – di nuovo di apparenza – che quella era stata la strada giusta e che l’errore sia stato aver tentennato al riguardo.

Si noti come ciò che accomuna i fanatici, siano essi rappresentati da Serena, Lydia o Winslow, è l’essere convinti che una soluzione adeguata a loro sia anche una verità valida per il resto del mondo, che va plasmato di conseguenza, salvo poi doversi confrontare con le realtà oggettive di tale rimodellamento.

La scelta di lasciare andare Nichole era stata, per una volta, istintiva, ma Serena è donna di calcolo e premeditazione, non di istinto. Quando June la attacca, in una scena tanto emozionante nella resa quanto poco plausibile nell’ambientazione, le rinfaccia una serie di fatti che sono ormai innegabili: Serena non sa cos’è l’amore o, meglio, lo scambia per bisogno e possesso e cerca la via più breve per realizzarlo.

Il dolore della perdita di Nichole, accentuato dall’ultimo incontro, l’ha messa di fronte all’unica cosa per cui era stata disposta a rinunciare  – letteralmente tutto – lasciandola quindi con un vuoto incolmabile. Se si vive con un obiettivo e si distrugge qualunque altra cosa in funzione di quello, il momento della rinuncia può essere un atto di nobiltà estrema se portato avanti, ma può anche mettere davanti all’inutilità della propria esistenza e costringere a tornare sui propri passi.

Serena è una donna incapace di veri sentimenti – cosa che non stupisce considerando la famiglia in cui è cresciuta – che ha cercato di accaparrarsi quanto di più vicino all’amore fosse in grado di concepire. La vera Serena, però, è quella che ricorda a Luke di aver protetto June e quella che dice a quest’ultima che avrebbe dovuto porle un anello alle labbra appena entrata in casa. Il resto è, di nuovo, apparenza o, al massimo, potenzialità inespresse.

Il secondo fronte che citavamo è quello delle interviste svolte dalla Delegazione Svizzera. In un momento di speranza e illusione, June si convince di poter manipolare la situazione in proprio favore, confidando nella possibilità di parlare liberamente. Ma la politica non agisce quasi mai per pura giustizia e anche gli intervistatori Svizzeri, pur consapevoli della situazione di June e Nichole, sono disposti al massimo a trattare in cambio di informazioni su Gilead. Nichole è merce di scambio in un gioco ben più ampio e June commette l’errore di pensare di essere in grado di sedersi al tavolo.

Più volte, nelle tre stagioni, la protagonista ha peccato di presunzione. Si potrebbe obiettare che sia proprio quella ad averle salvato la pelle più di una volta, ma è anche quella che l’ha messa di nuovo in una situazione di stallo, con Nichole lontana e potenzialmente oggetto di giochi politici e lei a rischiare la vita giorno per giorno, non più vicina ad Hanna di quanto fosse alla fine della seconda stagione. L’errore di questa volta sta nella sua convinzione di poter gestire Nick. Pochi sbagli sono più gravi di quelli fatti perché non si è a conoscenza di tutti i fatti e si è convinti del contrario: June pensa di conoscere Nick, di poterlo convincere facilmente, di potere ottenere in modo quasi immediato l’attuazione del patto fatto con la delegazione svizzera.

Ai suoi occhi, Nick non è molto altro rispetto all’autista/spia dell’Occhio di cui si in qualche modo innamorata. La scoperta del ruolo dell’uomo nella instaurazione di Gilead, il rendersi conto di quanto poco sa davvero di lui, sono quel peso di troppo che spinge la bilancia dalla salvezza verso una nuova potenziale disperazione.

Leggendo in rete si trovano parecchie domande sul ruolo di Nick e sul suo essere buono o cattivo, scordandosi che nella vita reale – e The Handmaid’s Tale ne è fin troppo specchio – nessuno è davvero bianco o nero, ma tutti siamo tonalità di grigio più o meno scure. Non ci sono dubbi sui sentimenti di Nick nei confronti di June, ma questi non lo rendono un brav’uomo, così come essere stato un Generale di Gilead non lo rende a prescindere un verme nel presente.

Non è il passato a definirci, ma il modo in cui ne facciamo tesoro o cerchiamo di correggerlo col nostro presente e futuro. Difficile, quindi, dire se Nick si sia trasformato in un personaggio negativo in cui l’amore per June rappresenta il solo momento di luce o se invece stia pagando per un passato che non lo rappresenta più. In entrambi i casi, comunque, non bisognerebbe stupirsi della sua evoluzione nell’episodio mentre, semmai, ci si dovrebbe lamentare della sua comparsa buttata lì giusto per inserire questo aspetto nella trama.

A inizio articolo si diceva che si ha una sensazione di stagnazione. Se ci si ferma a valutare la situazione dei personaggi, ci si renderà conto che ciò che è cambiato lo ha fatto solo in apparenza. Abbiamo June in balia di nuovi orrori. Abbiamo i Waterford in ruoli molto simili agli originali. Abbiamo la protagonista sola contro il mondo. Abbiamo Nichole in Canada ma in pericolo. Tutto ciò che è stato fatto è stato ribadire quanto Gilead abbia distrutto il passato (con immagini di effetto innegabile, quali la distruzione della statua di Lincoln e lo scempio fatto al Monumento a Washington), ma la storia è per ora attorcigliata a se stessa dopo alcuni episodi che sembravano mettere seriamente nuove basi e nuove possibilità.

Mancano sette episodi alla fine di questa stagione: c’è il tempo perché siano una degna correzione di rotta o perché finiscano per spingere la serie in un circolo soffocante di difficile uscita.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Consenso ai cookie GDPR con Real Cookie Banner