American Gods: 2×02 The Beguiling Man

Dopo l’amaro ritorno dello scorso episodio, l’approccio ad American Gods è per forza di cose influenzato da due opposti pensieri: da un lato la curiosità di capire quanto possa andare ancora male la piega della nuova stagione, dall’altra la speranza – forse ingenua – di un veloce ritorno su binari quanto meno discreti.

The Beguiling Man, diciamolo da subito, riesce a essere in qualche modo migliore di The House On The Rock, ma la mancanza di un’identità ben definita della serie si sente pesantemente. Ricordiamo, infatti, che non solo buona parte dello script originale di Fuller è stato rielaborato dal nuovo-ma-già-vecchio showrunner Michael Green, ma che diversi membri del cast – fortemente insoddisfatti del cambiamento – hanno letteralmente riscritto il materiale o improvvisato durante le riprese, aggiungendo caos al caos.

Ciò che almeno parzialmente salva The Beguiling Man sono due fattori: da un lato una regia meno pretenziosa rispetto al primo episodio, che sembra più conscia dei propri limiti e si focalizza sui suoi punti di forza, dall’altro le interpretazioni di alcuni attori che – da soli – riescono a intrattenere lo spettatore quando la sceneggiatura non riesce.

Da questo punto di vista il plauso principale va a Emily BrowningPablo Schreiber, i cui personaggi hanno raggiunto un’alchimia che rende i loro scambi tanto divertenti da far venire voglia di smettere di vedere American Gods e cominciare a seguire Laura & SweeneyIndicativo, al riguardo, che il momento più intenso e toccante dell’episodio sia quello in cui i due – a loro modo – hanno un momento di calma a cuore aperto: costellato da un fuck you, ma altrimenti non sarebbero loro.

Altrettanto significativo è che l’altro insieme di attori che regge la baracca è costituito da Ian McShane Orlando Jones – per inciso, due degli attori ribellatisi ai nuovi script – le cui presenze sceniche e capacità interpretative coprono la mancanza di interesse della loro sottotrama. Jones, in particolare, è un perfetto Nancy/Anansi, che ben rende lo spirito dissacrante ma non per questo superficiale del Dio/Ragno Africano.

Il Wednesday di McShane, poi, sembra essere più consapevole e simile alla versione vista nella prima stagione rispetto all’insipido visto nel primo episodio.

Ciò che manca, come abbiamo già più volte detto, sta invece nella sceneggiatura. La sottotrama relativa a Shadow e al suo passato è gestita in modo tanto esplicito da risultare banale e noiosa, cosa che American Gods non era mai stata in passato: i non detti, i cenni cui eravamo stati abituati si sono trasformati in un’esposizione quasi maniacale delle informazioni, senza sfumature, senza metafore, senza passione.

Il dramma alla base della formazione di Shadow non arriva perché non si riesce a empatizzare col personaggio e con la madre e il meccanismo di introduzione dei flashback, che poteva essere inizialmente interessante, si trasforma in una ripetizione che può funzionare nel testo scritto ma perde pesantemente efficacia durante la visione. Giocare, inoltre, la carta del passato di Shadow equivale a fare lo stesso errore narrativo che anni fa commise la Marvel rivelando troppo di Wolverine: ci sono personaggi che funzionano meglio quando di loro si sa poco o nulla, perché il mistero e la necessità di intuire fanno parte del loro fascino. Logan era uno di questi e Shadow lo è a maggior ragione, tanto che alla fine della lettura del romanzo originale il lettore non è sicuro di chi sia veramente il personaggio.

Senza arrivare a rivelare qui tale informazione – che potrebbe non essere replicata nella serie, sebbene i segnali ci siano – resta il fatto che mostrare invece di suggerire è un errore che potrebbe far perdere ad American Gods buona parte del suo fascino, come avevamo sottolineato nel primo episodio. Aggiungiamo, inoltre, che poche sono le informazioni realmente interessanti forniteci: giusto una che – appunto – si lega all’identità e all’importanza di Shadow: le altre erano in molti modi già state dedotte e sottolinearle esplicitamente non aggiunge nulla.

Il problema sostanziale – e di difficile soluzione in questa stagione – è che stiamo parlando di una serie cresciuta sul simbolismo e la metafora, ingredienti che vanno gestiti da chi è in grado di farlo (leggi Fuller), ma che se cambia registro di narrativo rischia di essere banalizzata al punto di risultare ben poco interessante: in The House On The Rock avevamo avuto un assaggio di tentativo – fallito – di mantenere il simbolismo, qui abbiamo una prova opposta che sicuramente funziona meglio, non avendo quel sapore di “vorrei ma non posso”, ma rende tutto meno stuzzicante e intrigante.

Per quanto riguarda le sottotrame secondarie, sembra tirata un po’ troppo per le lunghe la ricerca di New Media (in sostituzione dell’insostituibile Gillian Anderson), che ha il solo pregio di mostrare un lato vagamente interessante di Technical Boy. Vagamente.

Non pervenuto, invece, l’interesse per Mr. WorldBilquise e il neo introdotto Mr. Town,  anche se di quest’ultimo dobbiamo sottolineare qualche potenzialità che speriamo venga sfruttata. Piuttosto, sorge il dubbio che a breve vengano portati anche Mr. Loft, Mr. Condo, Mr. Car e Mr. Scooter, di questo passo.

La scena d’azione a fine episodio ci lascia infine un po’ indecisi: sebbene il cambio di ritmo fosse necessario dopo due episodi tanto parlati, la resa finale è poco comprensibile e molto caotica, ma non possiamo non notare come sia Browning che Schreiber sembrino essersi divertiti molto a girarla.

Se il risultato finale non è il – a nostro sindacabile giudizio – disastro della première, siamo ancora troppo lontani da ciò che questa serie può e deve essere. Dopo la recente notizia del rinnovo con un nuovo showrunner possiamo solo auspicare che i danni di questa stagione siano limitati o, continuiamo a sperarlo, che si trovi un registro narrativo discreto in vista di una terza che magari risollevi – e possibile concluda degnamente – il tutto.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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