L’importanza di avere un finale

Chiunque sia un fruitore non occasionale di serie TV si sarà sempre più frequentemente trovato a fare o ricevere una precisa domanda: “esiste un finale compiuto?“.

Capita quando una serie si è conclusa o, peggio, è stata cancellata e si desidera comunque approcciarla. C’è un finale? Nonostante la cancellazione, se dedicherò il mio tempo a quella serie la finirò con soddisfazione o rimarrò nel limbo di ciò che avrebbe potuto succedere?

Si tratta di un quesito così radicato, ormai, quando parliamo di serie, che ci scordiamo un aspetto fondamentale: non dovrebbe essere necessario porselo.

Non solo non dovrebbe esserlo, ma aggiungiamo un particolare di non secondaria importanza: la colpa non è tutta – anzi, non lo è neanche in maggior parte – delle reti televisive.

Facciamo un passo indietro.

Il concetto di cliffhanger non è certo recente: esempi di romanzi, fumetti e anche episodi di serie con finali aperti in attesa del volume, albo o episodio successivo sono presenti in qualunque fase della storia della narrazione. Il fatto è che in passato questo stratagemma serviva esclusivamente a tenere legato lo spettatore in vista di un seguito che già si sapeva ci sarebbe stato.

Pensiamo ai romanzi a puntate o ai fumetti più serializzati o, ancora, alle più classiche soap-opera: quasi ogni episodio si concludeva col fiato sospeso (quante volte abbiamo visto Batman imprigionato in una trappola mortale nelle sua serie anni ’60?), ma solo in attesa del seguente.

[pullquote]Il cliffhanger era un patto tra autori e spettatori[/pullquote]

Era un patto tra autori e spettatori: i secondi venivano fatti fremere in attesa di un qualcosa che sarebbe arrivato e, probabilmente, li avrebbe entusiasmati. Magari la seconda parte dell’affermazione non si verificava così spesso, ma la prima regolarmente sì, al punto che anche quando fu usata cinematograficamente (L’impero colpisce ancora è l’esempio più immediato) avvenne perché c’era già il progetto di proseguire. Star Wars, per rimanere in tema, si concludeva compiutamente perché non c’era alcuna certezza che avrebbe avuto successo, L’impero invece poté permettersi il lusso di fare attendere il terzo capitolo.

Negli anni, però, molte cose sono cambiate e le serie tv hanno sviluppato una trama orizzontale molto più importante e organica, rendendo i cliffhanger al termine di singoli episodi non sempre funzionali e utili. Se questo per anni ha significato un minore utilizzo di tale strumento narrativo, progressivamente il suo uso si è spostato dal durante al finale, cambiando così contestualmente le sue motivazioni di fondo: mentre prima serviva a far tornare lo spettatore la settimana successiva, ora è diventato un modo per legarlo per mesi in attesa di una nuova stagione.

Una nuova stagione che, però, potrebbe non arrivare mai.

E qui sorge il problema di fondo.

In un mondo ideale, tutte le reti deciderebbero a priori la lunghezza di una serie, il numero di stagioni previste e si impegnerebbero a portarle a termine, garantendo lavoro (e stipendio) a chi ne cura la produzione e una continuità narrativa a chi ne usufruisce. Ma in un mondo ideale Firefly non sarebbe stata cancellata a metà della prima stagione e The Walking Dead avrebbe ormai subito una dovuta eutanasia.

[pullquote]Le uniche vittime di questo meccanismo sono gli spettatori[/pullquote]

Il mercato attuale ha come sola costante l’incertezza, fatta eccezione per quelle poche serie il cui successo è tale che la rete è disposta a investire in anticipo per anni (come The Big Bang Theory, per citare un esempio non lontano). Ma se tutti sappiamo che la situazione attuale è questa, allora scrivere una stagione non tenendone conto è un gesto di superficialità e supponenza di cui i veri colpevoli sono gli autori e le uniche vittime sono gli spettatori.

Il meccanismo è piuttosto banale e semplice: se si inserisce un cliffhanger o una trama così aperta da poter essere scambiata per uno Stargate alla fine di una stagione, allora magari la rete si farà qualche scrupolo in più al momento di rinnovarla e, così non fosse, magari arriverà la spinta da parte dei fan perché venga salvata.

Non dobbiamo andare lontano per vedere casi del genere: è successo con Sense8 e con Luciferper citarne due; serie che, cancellate dalla rete, sono state salvate grazie all’intervento dei fan: una dalla stessa emittente originale, l’altra tramite il passaggio a una nuova.

Tutti felici? Non proprio. O meglio sì, certo, il finale di Sense8 è arrivato e ci ha dato almeno parte dell’appagamento che desideravamo e Lucifer proseguirà almeno per una stagione, ma così non fosse stato? Di chi sarebbe stata la colpa? Delle reti? Certo, loro sarebbe stata la decisione finale, ma di chi sarebbe stata la colpa della sospensione degli spettatori?

Solo e unicamente degli autori che, scommettendo pesantemente d’azzardo, avevano deciso che il rispetto dello spettatore venisse dopo il loro meccanismo di mini-ricatto verso la produzione, salvo poi mostrarsi disperati sui social e chiedere supporto ai fan. Un supporto concesso, sì, ma mai davvero meritato.

Sia chiaro, nessuno dice che non ci debbano essere punti aperti o spunti a cui agganciarsi alla fine di una stagione e non mancano i casi di serie cancellate durante la messa in onda (la già citata Firefly urla ancora vendetta), ma lasciare il finale incompiuto è gesto di pigrizia e, ripetiamolo, di mancanza di rispetto verso gli spettatori.

Ma, soprattutto, è perfettamente evitabile. Si guardi Counterpart, cancellata di recente e che probabilmente non verrà salvata: il finale ha indubbiamente punti in sospeso e non può definirsi del tutto chiuso, ma è comunque sufficientemente appagante da non lasciare lo spettatore con un palmo di naso.

O ancora Daredevil, che nonostante la cancellazione ha avuto una conclusione più che degna: ci fosse stata una quarta stagione avrebbe avuto margine di manovra, ma le tre esistenti sono un ciclo soddisfacente e concluso, così come lo fu la prima presa da sola. E per dimostrare che il problema sta nella scrittura, basti pensare invece ai finali di Luke Cage Iron Fist, dimostratesi pessime nelle loro seconde stagioni e cancellate senza che nessuna delle due abbia davvero avuto un finale.

Si tratta di un problema di equilibrio. Buffy, che per vari anni è stata sull’orlo del non rinnovo, è sempre arriva a fine stagione in modo organico. L’abbiamo addirittura vista morire alla fine della quinta per poi vederla risorgere nella sesta. Ha funzionato perfettamente. D’altro canto ci possono essere anche problemi opposti, con serie sempre sul punto di essere cancellate e poi proseguite a giochi ormai quasi fatti: Babylon 5 si ritrovò con una quinta stagione aggiunta all’ultimo, dopo una preannunciata chiusura con la quarta, e il risultato fu di avere un finale splendido in quest’ultima e molto meno accettabile (insieme all’intera stagione) in quella successiva.

Le cancellazioni ci sono sempre state. A volte è andata male, altre in qualche modo – come con Dollhouse – è arrivato un finale nonostante la chiusura imprevista, ma non può e non deve essere considerata come la regola.

La scrittura deve mostrare equilibrio, si diceva, e deve focalizzarsi su un ciclo narrativo alla volta lasciando spiragli per seguiti. Spiragli, non voragini come in Runaways. Si tratta a prescindere di rispetto nei confronti di quello spettatore che premia i creatori donando loro tempo prezioso e non deve trovarsi nelle condizioni di pensare di averlo buttato al vento perché gli sceneggiatori ci hanno provato e, per evitarlo, a domandarsi “ma esiste un finale compiuto?”.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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