Noir
Il nome di Christopher Moore non può che essere associato, lo dico sempre, a quel gioiello che è Lamb, ovvero Il Vangelo secondo Biff, che rimarrà in eterno la sua opera ineguagliabile. Ciò non toglie che Moore, in anni di produzione, non si è mai fatto mancare alcun genere di partenza da rielaborare nel suo stile e col suo umorismo.
Se, quindi, agli esordi della sua carriera avevamo avuto possessioni demoniache o lucertole giganti, negli anni ci si è spostati verso vampiri, delegati della morte, opere shakespeariane e pittori impressionisti. Ogni volta il risultato è stato non uno scimmiottamento né un’opera superficiale, bensì una vera e propria rilettura: un acquisire gli stili, le caratteristiche, le informazioni (impressionante, ad esempio, la ricerca fatta per Sacre Bleu) per poi digerirli e mutarli in qualcosa di nuovo, più personale.
Mancava all’appello il genere Noir e, ovviamente, il buon Chris non se l’è fatto mancare. Come dice nella postfazione, però, se il romanzo nasceva come un certo tipo di sottogenere, poi ha preso vita propria e si è evoluto in qualcosa di diverso a cui il titolo si adatta forse meno, ma senza davvero tradirlo. Diciamo che si è creato un nuovo sottogenere, il Noir Mooriano.
Del Noir vengono riprese ambientazioni, linguaggio (con tanto di trigger warning all’inizio), cliché: poi se ne tiene un 20% e il resto si butta nel cesso per creare una storia divertente e avvincente in cui l’autore riesce a miscelare una nascente storia d’amore, il periodo post-bellico, serpenti velenosi, Chinatown, i locali di donne travestite da uomini e Roswell. Sì, quella dell’Ufo Crash, per intenderci.
Se fossimo davanti a un altro autore il risultato sarebbe un minestrone illeggibile e irritante. Con Moore abbiamo un piccolo gioiello che scorre con piacere e porta in vita personaggi che, pur partendo da stereotipi, sono tutto fuorché prevedibili.
Il lavoro sui personaggi è qualcosa che, negli anni, è cresciuto molto in Moore: i dialoghi, gli atteggiamenti, l’ironia portano a dare vita a protagonisti che sentiamo vivi. Si ride, certo, e magari non tanto come in Biff o in Fool, ma quello che colpisce è l’anima che ne esce. Ci sono paragrafi di perfetta descrizione di sentimenti o gesti in cui, con poche parole, viene trasmesso al lettore uno stato emotivo ben preciso e sfumato così come l’esatta rappresentazione visiva della reazione di un personaggio, una capacità che gli invidio fortemente.
Sammy e Stilton non partivano, forse, come i personaggi potenzialmente più interessanti mai immaginati, ma si termina il romanzo dispiaciuti dal salutarli . E con una gran voglia di panino col polpettone.