Masterclass: Il momento più triste della tua vita
Qualche giorno fa ho deciso di iscrivermi a un corso di Masterclass.Per chi non lo sapesse, si tratta di corsi video di 15/20 lezioni in media tenuti da personaggi famosi nel proprio campo. Il termine “corso” può suonare strano, dato che il tutto si svolge esclusivamente via video e un minimo supporto di documentazione, ma l’idea è esattamente quella della trasmissione di competenze, anche se non a livello accademico. Il giorno in cui ho scoperto che era stato inserito un corso di scrittura tenuto da Neil Gaiman ho compreso che era giunto il momento di provarci. Quando avrò terminato il percorso mi riserverò di parlarne più in dettaglio, ma questa premessa mi serve per spiegare perché ogni tanto potrebbero comparire post con il tag Masterclass e un titolo più o meno estemporaneo. Alla fine di ogni lezione, infatti, il workbook messo a disposizione propone degli esercizi specificatamente legati all’argomento trattato: il sito mette a disposizione un’area in cui gli studenti possono confrontare tali esercizi, ma essendo la madrelingua inglese sarebbe un problema proporre un testo scritto originariamente in italiano, per cui ho deciso che il mio “palcoscenico” principale sarà questo, con buona pace di chi tra leggerà non avrà interesse particolare al riguardo.
La seconda lezione (dato che la prima è una semplice introduzione) è focalizzata sul dire la verità in ciò che si scrive e nel trasmettere ciò che sono le proprie esperienze reali nella finzione di un racconto. Gli esercizi proposti sono diversi: alcuni riguardano l’eventuale romanzo a cui si sta lavorando (toh, che coincidenza) e mi riserverò di metterli in pratica in quella sede, ma un altro chiede di mettere per iscritto (e poi leggere a qualcuno, cosa che farò) un argomento tra quattro a scelta, non romanzandolo ma parlandone superando la propria soglia di comfort, per andare un po’ oltre rispetto a quando, di solito ci si fermerebbe. I quattro argomenti sono:
- Un momento in cui sono stato profondamente in imbarazzo
- Qualcosa che rimpiango di aver fatto
- Il momento più triste della mia vita
- Un segreto di cui ho paura di parlare
Ho deciso di parlare del terzo, il che significa che saranno cose di cui ho già parlato, ma vediamo cosa ne viene fuori.
Quando ti trovi a dover raccontare il momento più triste della tua vita non dovresti fare fatica a scegliere. Non dovrebbe essere necessario elencare una serie di eventi che ti sono accaduti e doverli mettere su una bilancia a definire quale, di questi, è davvero il più triste. E quando ti viene da pensare che sia come chiedere a un bambino a chi voglia più bene finisci per dedurre che forse qualcosa, nel tuo passato, poteva andare meglio.
La prima volta che ho davvero affrontato la morte è stata nell’85, quando morì mio zio. Ricordo quei mesi come si può ricordare qualcosa avvenuta oltre trent’anni prima, quando non puoi davvero capire cosa sta succedendo, non sai bene perché una notte sei costretto a dormire a casa di tua zia o perché, qualche mese dopo, non troverai più il tuo gatto a casa perché tua madre non sopportava più di averlo in giro. Sai soltanto che stanno accadendo cose, sai che tuo zio sta per morire, poi che è morto, che tua madre si dispera. E poi piangi quando vedi la bara scendere nel terreno perché tutti intorno a te stanno piangendo e ti rendi conto, forse, che è davvero reale.
Con la morte, da allora, ho avuto a che fare per anni come spauracchio. La malattia di mia madre, l’operazione, la chemioterapia. E, anche se può sembrare slegato ma non lo è neanche per sogno, la sua depressione, quella morte dell’anima che solo chi vive può capire.
Eppure, nonostante tutto, gli spauracchi finiscono per essere tali. Alle paure ci si abitua sempre o quasi. Ci si convive. Si va avanti. Tanto che quando il peggio torna si finisce per non rendersene conto subito. Lo si affronta, un passo alla volta, pensando che non sia davvero quello. Se fosse quello ci sarebbe un annuncio, no? Come in un film. Come in un libro. Invece no. La vita reale non porta annunci, porta eventi, uno dietro l’altro, alcuni che hanno significato e altri no, ma che pian piano portano dove non stai guardando. A prescindere.
Fu così, a ripensarci. Prima una questione di salute diversa. Poi una complicazione. Poi una scoperta. E di nuovo ad affrontare qualcosa di già visto anni prima. Altrove, diverso eppure uguale. Non ho tanti ricordi di fatti di quei giorni. Sono passati più vent’anni, ormai. Ricordo, però, il sentirmi diviso. Avevo ventidue anni, mia madre si era trasferita in campagna per stare alcuni mesi con mio padre, perché era più facile per lui prendersi cura di lei lì. Vivevo da solo per la prima volta nella mia vita nella casa in cui ero cresciuto e dove vivo tuttora. Vivevo da solo e mi piaceva. Vivevo da solo e stavo bene. Sapevo della malattia, sapevo dei rischi, sapevo di tutto. Ma in quei giorni mi resi conto quanto il vivere con lei mi costringesse. Quanto il pensiero che lei potesse tornare a Milano mi angosciasse, perché significava dover tornare a essere chi, ormai lo sapevo, non ero più.
Non successe. Morì prima. E non so quanto sia comprensibile il senso di colpa che provai per mesi sapendo che non volevo tornasse a Milano. Era come se l’universo mi avesse risposto dicendo “non vuoi? beh, allora questo è l’unico modo”. E forse era davvero l’unico modo. Forse quello era il prezzo per essere io. Anche oggi so che se sono quello che sono è anche dovuto al fatto di averla persa. Si può essere così divisi riguardo un momento così orribile? Si può soffrire oggettivamente eppure non sapere se si vorrebbe che le cose fossero diverse perché significherebbe che io sarei diverso, conscio che potrei non piacermi affatto?
La morte di mio padre fu più veloce e imprevista. Più emotivamente violenta, complice anche i difficili rapporti che avevamo. Le due settimane da quando ebbe l’emorragia cerebrale a quando arrivò quella telefonata notturna sono offuscate. Ricordo eventi, ma non giornate. Istanti. Ricordo ciò che mi fece incazzare. Ricordo ciò che mi fece piangere. Ricordo il dovermi dividere, di nuovo, tra la vita di ogni giorno e il dovermi prendere cura di lui. Avete idea di quanto gli ospedali non siano davvero attrezzati se qualcuno ha bisogno costante, soprattutto di notte? Di quanto ci si possa svenare se, avendo un lavoro, c’è bisogno di pagare qualcuno perché vegli la notte? Io non lo sapevo. Ora lo so. Così come so quanto possa far rabbia che esterni ti dicano che devi esserci quando sei costretto tra lo stare accanto a tuo padre oppure lavorare per fatturare e pagare ciò che gli serve. So quanto la mente possa separarsi e quindi essere disperato mentre torni a casa alle 4 del mattino con tuo padre appena morto in ospedale e senti un piacere sadico nel mettere in difficoltà l’agente di polizia colpevole di essere stato fuori luogo non sapendo di esserlo. Ricordo quel piccolo piacere sottile di buttare veleno freddo su qualcun altro. Non me ne vergogno neanche, a dirla tutta. Conosco quella parte di me, quella nessuno vede quando dice che sono buono.
Sono questi i miei giorni più tristi? Sarebbe facile dire di sì, ma non ne sono sicuro. Quando succede sei disperato, ma poi spesso (“spesso”, cazzo. Rendiamoci conto che posso permettermi di scrivere “spesso”) per un po’ sei anestetizzato. In una bolla. Fai quello che devi. Sei vuoto. Piangi, perché il vuoto lo senti. Ma è tutto ovattato. Non lo so se quei momenti siano stati davvero i più tristi. Perché nulla mi leva dalla testa che renderti conto che senza la morte di tua madre non saresti ciò che sei, che sei figlio della sua morte letteralmente è qualcosa che supera in tristezza il dolore iniziale.
E lo stesso lo fa il giorno in cui vorresti chiamare tuo padre per raccontargli della giornata e per un istante ti dimentichi che non puoi più. E devi ricordartelo. E per un po’ finisci per sentirti inequivocabilmente e definitivamente solo.
penso che la vera sfida narrativa sia contenuta nella scelta stessa