Lo scrivo oggi
Lo scrivo oggi perché non so se domani avrò voglia di farlo. E perché domani è anche il compleanno di Miss Sauron e cercherò di pensare a quello. E perché forse, se lo scrivo oggi che non è ancora il giorno, forse, dico forse, è meno difficile farlo. Se esiste qualcosa del genere.
È che domani saranno dieci anni. Strano come alcune cose si ricordino nel dettaglio e altre sfumino. Ricordo di averti portato una bottiglietta d’acqua fresca, quel giorno. “Bella fresca” hai detto. Lo ricordo ancora. E ricordo di essere stato via per lavoro i due giorni prima ed essermi odiato per quello. E la telefonata. Le due di notte? Le tre? “La pressione è molto bassa, è il caso che venga”.
Milano – Borgomanero in quanto? Venti minuti invece di un’ora? Non lo so. È offuscato. Ricordo la tizia dell’assistenza notturna, che avrei preso a legnate perché non chiudeva il becco. Ricordo di averti detto che tra poco sarebbe passato tutto. Ricordo l’ultimo respiro. Il non sapere che era l’ultimo. È strano, no? È qualcosa a cui sei abituato e poi si ferma. E per un istante pensi che si stia solo trattenendo il fiato. Per un istante. Poi no. Poi è finita. E io non so quanti conosca che hanno vissuto qualcosa del genere. Che erano presenti quando. Non lo so. So che non lo scordi più. Che ti rimane lì. Che rimani lì. Che c’era un prima quel momento e tutto il resto sarà dopo. Tutto.
E ricordo quel povero, giovane, poliziotto che in barriera dell’autostrada (erano cosa? Le cinque del mattino?) mi chiese un po’ supponente se mi fossi appena svegliato. “No, ho appena perso mio padre”. Lo dissi con rabbia, sapendo che non poteva sapere. Ma lo dissi. Era forse la prima volta che lo dissi ad alta voce.
E ricordo le settimane prima, la notte a vegliarti. La terapia intensiva. Il trasferimento sotto la neve. Sono flash, ma li ricordo. Ricordo le lacrime di chi c’era, di chi mi era accanto pensando di non essere abbastanza e che invece mi fece da ancora.
Ricordo che fu il primo Natale a Milano dopo decenni. Perché ormai, a Marano, non c’era più motivo.
Dieci anni. Quante vite, quanta merda, quanti cambiamenti, quanta vita, quante emozioni. Dieci anni, non so quante volte avrei voluto prendere in mano il telefono e chiamarti a fine giornata come facevo sempre. Raccontarti. Condividere gioie che non avresti capito, sfogarmi per rabbie che forse avresti sottovalutato. Ma almeno parlarti. E farti vivere i miei fratelli, che avevano il diritto di conoscerti e così non è stato. Come sarebbe stato essere tutti e cinque insieme, almeno una volta? Non lo so. So che sono felice di averli nella mia vita, ora. Anche se distanti, anche se non spesso. E spero ne sia felice anche tu.
Dieci anni. Ho la barba ora, sai? Già non ti piacevo col pizzetto, con la barba mi avresti insultato.
Dieci anni. E quando ero in sedia a rotelle avrei voluto vederti venirmi a salutare, ma non c’eri più. Quando tutto è crollato, quando ero disperato, avrei voluto parlarti. Ma non c’eri più. E quanto abbiamo discusso, quanto ci siamo allontanati, quanto siamo diventati diversi. Ma non averti più è peggio. Molto peggio. Mi avete lasciato solo troppo presto. Ho fatto del mio meglio. Lo faccio sempre. Ma è stato troppo presto.
Sono dieci anni, tra un giorno. E mentre scrivo piango, perché un giorno l’anno me lo concedo. E dieci anni sono solo un numero, ma rimangono dieci.
E mi manchi. Mi manchi e basta. E fa ancora male.
E fa male che domani sia anche un anno che manchi tu, Stitch. E chi non capirà come si possano scrivere entrambe le cose non capisce e non capirà mai. Ho impiegato mesi per soffocare un po’ il senso di colpa. Ancora di più per non sentire costantemente la tua mancanza. Ma fa male, Stitch. Non ero pronto. Non era il momento. E non doveva succedere così. Non con la tua paura nelle orecchie. Non con la convinzione che sarebbe passato e invece te ne stavi andando. Non con quel maledetto ultimo respiro che non ho riconosciuto come tale. Eri arrivato a casa quando mio padre era ancora vivo. Vi eravate conosciuti. Ti prendeva in giro per la testa piccola. E te ne sei andato il suo stesso giorno. E stavo affondando, Stitchone. Stavo affondando senza prendermi cura di te. E loro tre non sono te. Non saranno mai te. Ma mi hanno salvato. E io ho salvato loro come avevo fatto con te. E so che se ci fossi stato tu li avresti accolti, perché tu eri così. Perché tu eri il mio gatto. Perché sei e sarai sempre il mio gatto.
E mi manchi.
E spero che magari mio padre ti stia facendo un grattino, anche se non era il tipo. E magari tu gli farai le fusa. Assieme a Zen. Magari.
Ma mi mancate.
Mi mancate tutti.
E piango per dieci anni senza mio padre. E piango per la mancanza di un compagno di vita.
E accidenti quanto è difficile convivere con tutto.