The Handmaid’s Tale: 2×01 June – 2×02 Unwomen
Dopo una prima stagione praticamente perfetta, che ha segnato la scorsa stagione televisiva, il ritorno di The Handmaid’s Tale era, assieme a quello di Westworld, uno dei più attesi e, per molti versi, temuti.
Temuto anzitutto perché quando si ha un prodotto di tale qualità, c’è sempre il timore che possa essere rovinato da scelte sbagliate e, in secondo luogo, perché il materiale originale da cui è tratta la serie, l’omonimo romanzo di Margaret Atwood, è stato completamente sfruttato con la stagione precedente: il rischio, quindi, di pieghe narrative non all’altezza dell’altissima asticella fissata in precedenza era più che tangibile.
Ma, soprattutto, il timore era legato ai contenuti, ovvero a quella morsa allo stomaco che, se scritta come ci ha abituati, questa serie porta necessariamente con sé.
È questa l’unica paura che vediamo confermata e l’unica che volevamo lo fosse.
I due episodi di ritorno ci dicono chiaramente che l’oscurità non se n’è andata, ci ha attesi e ha ancora molto da mostrarci, abissi da scavare, speranze da coltivare o distruggere.
June riparte dal punto esatto in cui si era conclusa la prima stagione: Offred portata via in un furgone scuro. La domanda che ci aveva lasciati in sospeso, il dove venisse portata, riceve subito una risposta terribile e ci fa vivere una decina di minuti carichi di angoscia e terrore.
La scena a cui ci troviamo di fronte è uno dei momenti più drammatici della serie, nella sua semplicità, e riesce a farci sentire sulla pelle il terrore assoluto di chi è convinto di essere ormai sul punto di morire e che sa di non poter fare assolutamente nulla per evitarlo. Non c’è rabbia, non c’è ribellione, c’è solo pura disperazione.
La rabbia viene dopo. Viene con l’ingiustizia perpetrata. Viene con le punizioni di crudeltà crescente. Viene con il doppio volto di Zia Lydia, un demone col nome di Dio costantemente in bocca. Viene, soprattutto, con la speranza, perché è la speranza che, più di ogni cosa, alimenta la rabbia ed è la speranza che riporta lentamente June dove per lungo tempo c’è stata Offred.
Un primo episodio che, nella parte ambientata nel presente, sembra voler chiudere definitivamente un capitolo per andare a gettare nuove fondamenta e che fa del proprio titolo una presentazione, ma anche una vera e propria dichiarazione d’intenti: Offred cede il passo a June e June è pronta a non farsi più sotterrare. La scena della rimozione del tag dal proprio orecchio senza altri strumenti se non un paio di forbici è una sorta di processo di rinascita che per forza di cose passa dal dolore di Offred per permettere il ritorno alla luce di June.
Il mio nome è June Osborne. Vengo da Brooklyn, nel Massachusetts. Ho trentaquattro anni. Sono alta un metro e sessanta senza tacchi. Peso cinquantaquattro chili. Ho delle ovaie sane. Sono incinta di cinque settimane.
E sono libera.
La possibilità che questo cambiamento sia temporaneo e rappresenti esclusivamente una scusa per poi far precipitare ulteriormente il personaggio nella disperazione c’è e non è secondaria, ma ci consentiamo di sperare che non sia così; la vita da ancella è stata ben mostrata nella prima stagione e tanto ancora c’è da raccontare di Gilead e di quel mondo troppo potenzialmente vicino al nostro: questo è ciò che lo spettatore merita e che, sembra, gli autori vogliano trasmettere.
Uno degli aspetti in cui già la prima stagione aveva eccelso era stato il raccontare come si fosse arrivati a Gilead partendo dagli Stati Uniti. Avevamo visto primi segni di trasformazione, avevamo assistito a ribellioni soffocate nel sangue, alla progressiva rimozione delle donne dal proprio posto di lavoro, anche alla pianificazione del colpo di stato che avrebbe poi sovvertito il potere. June procede in questa direzione e arriva a raccontarci il giorno dell’attacco, quello in cui tutto è crollato. Lo vediamo attraverso gli occhi di June e del marito, in una giornata come tante in cui la tv inizia a trasmettere notizie sempre più drammatiche: esattamente come l’11 settembre, che viene esplicitamente citato. Di nuovo, la sensazione è quella del “potrebbe accadere” e questa angoscia non si solleva in nessun istante.
Un’angoscia che, in Unwomen, viviamo anche attraverso l’approfondito sguardo nel passato di Emily, che è a tutti gli effetti la protagonista di questo secondo episodio. La vediamo nella sua vita da professore universitario, assistiamo al crescente ritorno dell’odio omofobo che porta alla morte di un collega e al suo tentativo di fuga dal paese.
– Credevo che la mia sarebbe stata l’ultima generazione ad avere a che fare con questa merda. Pensavo foste tutti così viziati.
– Non più.
– Benvenuta nella lotta. Fa schifo.
Un tentativo il cui esito è uno dei momenti più strazianti di questa doppia première, col sapore di impotenza che troppi vivono tutt’oggi in molte parti del nostro pianeta. Quando si parla di tragedie c’è sempre un prima e un dopo e davanti a noi si dipana l’esatto istante in cui quei due momenti si danno il cambio. Prima c’era una vita ricca, completa, felice. Dopo soltanto Gilead e il ruolo di ancella. In mezzo un ufficiale che dice pronuncia poche terribili parole: “non siete sposate. La legge lo vieta.”
Sempre seguendo Emily, stavolta nel presente, ciò che conosciamo di Gilead si amplia con la nostra prima incursione nelle Colonie, quelle a cui sono condannate le ancelle ribelle come l’ex-Ofglen, le signore che hanno commesso peccati carnali, qualunque indesiderata che possa tornare utile al lavoro in terreni tanto contaminati da radioattività e batteri da rappresentare essenzialmente una condanna a una morte lenta e dolorosa: qui vengono private di qualunque vestigia di umanità che poteva essere loro rimaste e diventano le non-donne del titolo.
L’arrivo in questi luoghi maledetti di un personaggio interpretato dalla sempre strepitosa Marisa Tomei è una chiave per mostrarci quanto Emily sia ormai una donna con nulla da sperare e tutto da vendicare: quello che sembra essere il classico meccanismo di pietà verso un nuovo arrivato in una terra ostile si trasforma magistralmente in una vendetta crudele e gelida verso una persona la cui colpa è essere stata membro della stessa società che poi l’ha cacciata. Non c’è espiazione, non c’è salvezza: le colpe vanno pagate, non importa se direttamente o indirettamente. Emily si è vista togliere qualunque cosa più volte e ogni segno di pietà o empatia verso altri che non siano le sue compagne di disgrazia è ormai sepolto. Non ci sarà forse modo di abbattere Gilead, ma c’è modo di far soffrire almeno un singolo e tanto le basta. Tanto è costretta a farsi bastare per sopravvivere.
Il fatto che l’episodio veda Emily come colonna portante non significa che June sia messa da parte e, anzi, vediamo confermato lo sviluppo anticipato nel precedente. La sede del Boston Globe, in cui la donna è costretta a rifugiarsi, funge da violento contraccolpo visivo ed emotivo. Non solo, infatti, la donna si trova a ricordare ciò che era il mondo prima, a vedere giornali rimasti nelle rotative, segni di vita su ogni scrivania, tracce tanto reali da far sentire stupidamente indiscreti nell’andarle a invadere, ma ne scopre il successivo ruolo di mattattoio verso i giornalisti colpevoli – supponiamo – di aver cercato di trasmettere la verità.
Ed è qui, dopo la paura e il desiderio di fuggire, che June torna in vita. Un vecchio detto dice che “la morte chiama la vita” ed è questo che la conduce a cercare di sentirsi viva con Nick nell’unico modo più vero e istintivo: il sesso. Sesso non più come veicolo di procreazione, ma come ribellione carnale e istintiva alla distruzione e alla morte che li circonda. Se prima potevamo dubitare del ritorno di June e della morte di Offred, ora viene da pensare che non c’è verso di tornare indietro e quel desiderio di tornare in vita è anche la spinta a trasformare un luogo di sangue in un santuario di memoria, primo passo dalla distruzione alla creazione.
Abbandonando l’analisi del contenuto, aggiungiamo qualche osservazione sull’estetica degli episodi. L’utilizzo di diversi colori dominanti in base alla localizzazione fisica e temporale è sempre netto e ben costruito: l’oscurità opaca dei momenti allo stadio o che ruotano intorno alle ancelle contrapposta alla luce accecante dei luoghi di cura e a una dominante giallo/ocra che richiama in qualche modo la radioattività che impregna le colonie. I colori naturali, netti, non sfumati, ci sono solo nel passato, quando ancora la speranza non era stata uccisa dall’oppressione.
Non possiamo, infine, chiudere senza segnalare le meravigliose interpretazioni di Elisabeth Moss e Alexis Bledel che, ognuna col proprio stile, riescono a trasmettere ogni sfumatura di emozione direttamente al cuore dello spettatore: ci sono parecchi istanti in cui basta un cambiamento di sguardo, un cenno sulle labbra, un movimento per restituire una gamma completa di sensazioni e pensieri, come neanche dieci minuti di monologo potrebbero fare. Se la sceneggiatura è, senza dubbio, un gioiello grezzo, la loro interpretazione è ciò che lo rende inestimabile.