Come stai?
Che domanda piena di sfumature.
Come stai?
È, se ci pensate, una di quelle domande a tre stati: non fatta, fatta come pro-forma o fatta perché ci si interessa davvero.
In quest’ultimo mese, dell’ultimo tipo, ce ne sono state tante, probabilmente più di quante mi aspettassi e tutte, nessuna esclusa, sono state importanti e hanno aiutato ad andare avanti.
Poi ci sono state quelle del primo tipo: quei come stati che avrebbero potuto esserci, ma la cui assenza ha dimostrato più di una loro forzata o meno presenza.
Dei secondi, penso – ma potrei sbagliarmi, ovviamente – ce ne siano stati pochi: si percepiscono, chi li riceve – a meno proprio sia totalmente incapace di comprendere oppure obnubilato – li riconosce e li gestisce di conseguenza; va bene così, eh? Non tutti devono aver interesse per tutti e, soprattutto, certi come stai sono attesi dagli amici e da chi ti vuol bene, non certo da chi ti conosce a malapena o superficialmente.
Anche se, ripeto, in questo mese ne sono arrivati di sinceri da persone da cui non me lo sarei aspettato. Sono arrivati da persone che neanche pensavo potessero più passare da qui e che invece hanno voluto farsi sentire ora perché questo momento era più importante di qualunque altra variabile occorsa in passato.
(E, se stai leggendo, ti ringrazio ancora, perché ti assicuro che non me l’aspettavo e che mi ha fatto bene.)
Poi il tempo passa e i come stai non possono continuare ad arrivare nello stesso modo o essere sempre altrettanto intensi, se così vogliamo dire; si tratta di uno dei problemi dei lutti o di dolori simili e delle loro conseguenze: il mondo va avanti e tu, nel frattempo, vivi a un ritmo diverso. A volte ti fermi, a volte procedi, ma sei disallineato. Mentre la vita prosegue per tutti (e giustamente) come nulla fosse, la tua è cambiata irrevocabilmente ed è solo normale che gli altri in qualche modo se ne scordino: non è volontà o cattiveria, assolutamente, è la pura e semplice normalità. Tutti noi abbiamo le nostre vite e il dolore altrui ci influenza in modo direttamente proporzionale a quanto viviamo in contatto (fisico o virtuale) con lui. Non è né giusto né sbagliato, è il meccanismo delle nostre vite.
Così i come stai devono diradarsi e, soprattutto, la risposta tende a diventare, salvo casi eccezionali, più sfuggente: perché la persona davanti a te spererebbe, comprensibilmente, di sapere che va meglio, che tutto è passato, che sei tornato sui tuoi binari e tu, semplicemente, non puoi rassicurarlo, perché non funziona così. Allora abbozzi, dici che prosegui, che ti barcameni, che vai avanti. Cose assolutamente vere, semplicemente non entri nel dettaglio di come davvero ti senti, perché dall’esterno può sembrare l’unica cosa che davvero non vuoi sembri: autocompatimento.
Quindi?
Come stai?
Come sto?
Lo scrivo qui, perché qui è casa mia e perché se uno ha voglia legge e se uno non ha voglia non legge e può non sentirsi in colpa per non averlo letto, io di sicuro non gliene farei una colpa.
Come sto?
Banale, ma è difficile spiegarlo. Anzitutto è difficile spiegare perché sto come sto. Il dolore di Stitch è stato qualcosa di enorme e improvviso e su questo non piove e un lutto del genere è qualcosa che richiede ben più di 25 giorni (già 25…. ben 25…) perché si metabolizzi. Ma non è solo (solo?) quello. È trovarsi alla fine di due anni e qualcosa che mi hanno preso a badilate nei denti e sulla schiena. Anni dai quali, non ci fosse stato il supporto morale di molte persone, non so come sarei uscito ma che, al contempo, sono stati avidi di prezzi di pagare. Prezzi morali. Prezzi di paure. Prezzi nelle relazioni interpersonali. Prezzi nelle amicizie. Il rischio di perdere la casa. Zen. Rooney. Stitch è stato il colpo – spero – finale a tanti mattoni che erano il mio punto d’appoggio e che uno alla volta sono stati estirpati più o meno violentemente, lasciandomi qui, con pochissimi punti fermi residui, tanta paura (perché sì, dopo un po’ di batoste hai paura che ne arrivino altre e che siano quelle che non saprai o potrai gestire) e la violenta sensazione di non avere più quasi alcun tipo di stabilità.
Poi ci sono momenti che aiutano molto. Londra è arrivata nel momento in cui più serviva. Lo scorso week-end, tra brunch e giri al gattile con Miss Sauron e vedere due care amiche solitamente troppo lontane, è stato carico di momenti in cui ho sorriso con piacere.
Si parte da lì, lo so.
Si parte da lì, si parte dal tenersi impegnato, si parte dall’uscire a mangiare una pizza con un amico, si parte dal decidere che, se tutto va come deve, a breve arriveranno nuovi ospiti felini in casa.
Ma è tutto come una città di mare dopo che varie onde anomale sono piombate all’improvviso: si cerca sempre di ricostruire subito dopo ogni ondata, ma i danni si accumulano, non è possibile ricostruire esattamente come prima e, a quel punto, si deve decidere cosa e dove ricostruire. E, nel frattempo, si guarda all’orizzonte sperando di vedere un mare piatto e non l’ennesima onda arrivare.
Ecco, questo è un po’ come sto e lo scrivo qui più per me, per ricordarmelo, che per comunicarlo.
Oggi, 15 gennaio, le cose sono così.
Come stai?
Cerco di ricostruire, senza ancora sapere cosa e come, sperando le ondate siano finite.
Penso sia tutto qui.