John, Paul, Ringo, George. Perdonateli, non sanno quello che hanno fatto.

Quando alcuni mesi fa uscì “The Beatles: eight days a week” di Ron Howard, un documentario sull’ultimo periodo di concerti dei Fab Four, uscii dalla sala ripetendo a mo’ di mantra “ancoraancoraancoraancora” per quanto mi aveva lasciato entusiasta; così, quando ho scoperto che sarebbe arrivato al cinema un altro film (stavolta di Alan Parker) dedicato a Sgt. Pepper’s Lonely Heart, le aspettative erano veramente molto alte.

Il problema è che se anche ne avessi avute di basse o nulle, sarei uscito dalla sala entusiasta come se mi avessero appena cavato un dente sano lasciandomene uno cariato.

Partiamo dall’elefante nella stanza: la regola di base è che se fai un documentario su un personaggio o un gruppo musicale, tu nel documentario devi inserire brani del tuo soggetto; se, poi, stiamo parlando di un film che dovrebbe parlare della genesi di un album sarebbe carino se non dico tutti, ma almeno alcuni brani fossero trasmessi, giusto per capire di che diamine stai parlando.

Invece no. Il buon Parker ha deciso di fare un’ora e mezza di documentario sui Beatles in cui di loro musica non c’è neanche mezza nota. Neanche per sbaglio. Zero. Non solo, le poche musiche che si sentono sono degne della melodia di attesa della segreteria del suddetto dentista. E, giusto per battere se stessi, che musica metti sui titoli di coda? Dove Ron Howard ha fatto sentire buona parte del concerto finale americano, cosa ha piazzato il caro Parker? Una canzone Hare Krishna. Ripeto: una canzone Hare Krishna. Non sto scherzando.

Ma almeno, mi direte, il documentario è interessante?

No.

No, perché non racconta. Si tratta di una somma di pezzi di interviste di personaggi più o meno di secondo piano che raccontano aneddoti spesso slegati o inutili e addirittura in contraddizione tra di loro.
A un certo punto si cita la questione di LSD/Lucy in the sky with diamonds. In sequenza abbiamo, detto da varie persone:
– John disse chiaramente che non era vero.
– Lui diceva di no, ma secondo me era vero.
– Sì sì, era vero
– Secondo me era vero

Ecco, buona parte del documentario è così.

Gli argomenti stessi trattati vengono buttati lì, senza filo conduttore: immagino che l’intenzione sia quella di spiegare i vari ingredienti che portarono a Sgt. Pepper, ma se non lo spieghi, se non li fondi, se non racconti  a me ciò che stai mostrando non serve a nulla.

Così abbiamo un inizio in cui si parla della polemica “John Lennon Vs. Gesù Cristo”, poi dei troppi concerti, poi dell’omosessualità di Brian Epstein, poi della sua morte (con tanto di macabro e inutile racconto su alcuni messaggi lasciati in segreteria), poi della Apple Records che poi  però non si approfondisce, poi ancora del periodo col pseudo-santone indiano Maharishi, nel frattempo si citano le loro incapacità gestionali, poi si mostrano interviste in cui dicono ci separiamo, no non è vero, si è vero, ok, è vero, ma non è vero.

E ancora veniamo edotti sulla meravigliosa storia dietro un paio di medaglie indossate da John sulla copertina o sul fatto che, udite udite, la segretaria batté a macchina i testi di Sgt. Pepper’s e poi li buttò via! Addirittura!

Il tutto messo lì, come la scatola di un puzzle di cui nessuno si è degnato di fornire la foto guida o anche solo qualche indicazione di cosa dovrebbe comparire.

Amo la musica dei Beatles e mi piace l’idea di poter approfondire un periodo di storia (musicale e non) che non ho potuto vivere, ma questo film è l’esatto opposto: pretenzioso, inutile, fine a se stesso, noioso. 

Ogni cosa che un qualunque prodotto legato ai Beatles non dovrebbe essere.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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