Alla sprovvista
C’è qualcosa di strano, nella musica. Sto per dire probabilmente un po’ di banalità, ma sono flash che mi sono passati per la testa più volte in questi giorni.
Ci sono canzoni che più che essere impresse nella mente sono praticamente incise nel nostro dna, figlie di un imprinting legato alla nostra adolescenza o ai primi vent’anni: gli anni in cui una canzone veniva ascoltata per ore di fila, così come un singolo album o, magari, una cassetta (sì, sono vecchio) fatta ad hoc; un tale marchio che anche ora, se capita di sentire un pezzo, viene quasi istintivo aspettarsi che il brano successivo sia esattamente quello che lo seguiva su quella particolare musicassetta.
Di certo, per chi ha la mia età, la questione è accentuata perché gli album a disposizione erano comunque molti meno di quelli accessibili a chiunque, ora, abbia una connessione a internet.
Ma si va oltre, perché ci sono brani che magari non sono così importanti di per sé, per quello che hanno significato, ma che riescono a richiamare, per averli ascoltati migliaia di volte in momenti ben precisi: il risultato è che quelle canzoni vanno a scavare e a tirare fuori uno stato d’animo, ma anche impressioni e addirittura speranze che non sono di oggi, ma del te stesso (del me stesso, in questo caso) di decenni fa. Una sorta di viaggio nel tempo emozionale che può lasciare frastornati, soprattutto per quanto riguarda la parte delle “speranze” e dei “sogni”.
Faccio fatica a spiegarlo meglio, ma per qualche istante torno quella persona, quello che ero, ricordo quando dicevo “un giorno ascolterò questa canzone con la persona con cui sto” o “un giorno la dedicherò” o, semplicemente, “un giorno la condividerò e la racconterò”: sogni di una persona che non aveva certo molta fortuna col sesso opposto, che non aveva molti amici, che guardava al domani.
Ma quel domani è oggi, se non ieri, e quei sogni non ci sono più, sostituiti da altri. Molte di quelle canzoni non le ascolti da anni salvo poi beccarle per caso nello shuffle del cellulare e così eccoti a pensare che no, quella canzone non l’hai più dedicata, quella sì, quella non è mai stata il momento giusto.
E senti nostalgia, dolcezza, amarezza, tutto insieme.
Una delle cassette che ascoltavo più spesso era una compilation che si chiamava Love Album (sì, ok, evitate commenti) e che, in realtà,non conteneva esclusivamente canzoni d’amore, ma aveva parecchi pezzi che mi aiutarono ad ampliare le mie scarse conoscenze musicale: Bonnie Tyler, Spandau, Leonard Cohen erano su quell’album (e tutto si può dire di “First we take Manhattan tranne che sia una canzone romantica).
E assieme a brani che ho tenuto stretti, ce n’erano altri che semplicemente facevano da sfondo al mio stato d’animo del momento, tipicamente quando mi sentivo molto solo: è così che oggi, quando sono passate “Walking on the chinese wall” e “Eternal flame” il pensiero è tornato di corsa a giorni con il walkman nelle orecchie, il cielo grigio, l’umore simile e loro nelle orecchie.
E quel me stesso è sempre qui, nascosto, ma presente.
Assieme a quello che correva in bici cantando a squarciagola “Dressed for success” col suo migliore amico in una calda estate piemontese.
Ma questa è un’altra storia.