Rientro

Tornare alla vita di tutti i giorni dopo due giorni intensi come quelli appena trascorsi è, frase estremamente banale, piuttosto destabilizzante.
Un po’ per la stanchezza fisica che richiede tempo per essere smaltita (sì, sto invecchiando male), un po’ perché nel giro di meno di 48 ore ti trovi a infilare tanto di quel bello visto, sentito e vissuto da aver bisogno di lasciarlo sedimentare e germogliare.

È la seconda volta che viaggio da solo e, guarda caso, la seconda che capita a Londra e, di nuovo, la seconda che accade perché devo assistere a qualcosa in cui è presente Neil Gaiman: dopo lungo tempo in cui uno dei miei sogni è sempre stato “prima o poi vederlo dal vivo”, nel giro di due anni mi è capitato due volte; due anni fa era in scena con sua moglie e altri ospiti, mercoledì sera era da solo a parlare del suo nuovo libro “Norse Mythology” ma anche di novità varie in arrivo.

Questa la motivazione principale per cui, a inizio dicembre, mi sono messo in coda virtuale di due ore per comprare il mio biglietto, seguito dall’acquisto immediato del volo con Easyjet e infine dall’albergo, tutto nel giro dello stesso giorno.

Ma non puoi andare a Londra senza cercare di sfruttare a pieno il tempo a disposizione, così ho scoperto che c’erano due mostre che mi interessavano e ho deciso di incastrarle.

Mercoledì mattina, sveglia impostata alle 4.10, la giornata non era iniziata benissimo, con Stitch che aveva deciso di vomitare una palla di pelo alle 4 in punto. Già avevo sì e no quattro ore di sonno, ma la sveglia al suono del gatto che vomita è una di quelle più disturbanti che possa immaginare. Quindi, in coma, alzarsi, pulire e poi prepararsi per andare in aeroporto. E anche qui, sorpresina. Se il parcheggio P2 di Linate è sempre estremamente comodo, sarebbe stato ancora più comodo avere accesso dalle porte situate al piano arrivi invece di dover prendere la rampa delle auto (a piedi) da fuori. O almeno sarebbe stato carino che qualcuno avvisasse, ecco.

Ma alla fine sono partito, sono arrivato, e ho constatato quanto il Gatwick Express sia gestito male (ma ci torneremo): con il ritardo previsto indicato a tabellone aumentato di minuto in minuto (letteralmente) e un bel cambio di binario poco prima, giusto per verificare l’attenzione dei viaggiatori.

E, arrivato a Victoria, ho trovato le porte di ingresso della stazione della metropolitana chiuse. Nel senso che erano tirate le saracinesche. Il fatto che ci fosse gente in coda mi ha fatto intuire che probabilmente la cosa fosse temporanea (immagino per motivi di sicurezza legati al flusso dei viaggiatori), ma qualcosa dentro di me ha urlato un sentitissimo “come onnnnnn“.

Ma anche questa è andata, porte aperte, ricaricata di 20£ la Oyster e via in viaggio verso l’albergo.

Uscire a Earl’s Court e trovare l’ormai familiare Tardis vuol dire respirare in qualche modo aria di una casa quando non sei a casa. La stanza già disponibile, con la scoperta che ora l’Ambassadors offre un cellulare gratis (internet incluso) in comodato d’uso finché si pernotta lì, è stato il benvenuto. Quello e la doccia rinfrescante prima della partenza alla conquista della città, con la prospettiva di non tornare fino a sera.

Earl’s Court è così vicino al Museo della Scienza che non farla a piedi è un crimine. E poi così si passa davanti al Museo di Scienze Naturali.

Ma quel giorno era la mostra “Robots” ad attendermi: dalle prime idee ai tentativi di stupire il pubblico con macchine semoventi, dagli orologi ai cigni d’argento, dalla fantascienza alla realtà, da robot dell’immaginario a quelli che oggi già vengono costruiti e studiati. Robot per sfidare la scienza, Robot per imparare meglio del corpo umano. Una mostra affascinante e coinvolgente, a tratti inquietante, molto più spesso in grado di far dire “ancora” e far chiedere quando avremo intorno a noi dei Replicanti o degli Host (cit. Blade Runner e Westworld).

Finita la mostra, i giri più classici: Forbidden Planet, Foyles, Seven Dials, Covent Garden, Il Southbank.

Ho comprato un regalo, ho desiderato comprare di tutto, ho girovagato tra scaffali di libri, ho chiacchierato con una signora cinese che parlava pochissimo inglese ma voleva essere sicura di aver comprato i libri giusti per sua figlia. E nel frattempo mi ha raccontato di essere in vacanza per due settimane e di avere un’amica sposata con un italiano.

Passeggiare, nonostante la pioggia che ogni tanto si è fatta viva, scattare foto dal Waterloo Bridge rischiando di rimetterci l’ombrello ma non si poteva lasciare quelle immagini lì.

E non si può passare dal Southbank senza entrare al National Theatre, girare la sua libreria piccola ma in cui ci si vorrebbe perdere, respirare quegli spazi.

Alla fine, il Southbank Centre, il libro, l’attesa per lo spettacolo. Duemila persone lì solo per lui. Neil Gaiman, a fare quello che sa fare meglio. Raccontare storie.

Ha letto passi del suo libro (facendoci pendere dalle sue labbra), ce ne ha raccontato la genesi, ha risposto a domande interessanti che dimostrano quanto il suo pubblico sia uno specchio di ciò che è lui.

Ci ha mostrato il trailer di American Gods  (“Amazon ha chiesto a BBC di farglielo portando una vagonata di soldi. Poi ha chiesto se ne volessero ancora e hanno detto ‘ecco, prendete quest’altra vagonata'”), in onda da Aprile, ma anche il trailer in divenire di “How to talk to girls at parties”, film che uscirà quest’estate basato su un suo adorabile racconto (con Elle Fanning e Nicole Kidman, tra l’altro).

Ma soprattutto ha chiacchierato con noi e questo era ciò che desideravamo.

Se confronto con la volta precedente mi rendo conto di quanto questa sia stata diversa. Lì erano lui & Amanda Palmer, con lei che tende a imporsi sulla scena e lui che, bene o male, lascia fare. E c’erano ospiti. Ieri sera era il Neil Gaiman che ho apprezzato in ogni sua parola, nello speech “Make Good Art”, nelle interviste.

La soddisfazione di essere nel posto giusto al momento giusto.

Finita la serata, le energie erano veramente al minimo, giusto il tempo di attraversare il ponte, innamorarmi dell’ennesimo scorcio, raggiungere Enbankment e tornare in albergo, in vista della giornata di ieri.

L’idea era semplice: colazione, check-out, acquisto di medicinali (sono vecchio, lo ribadisco), British Library.

Tanti italiani in albergo. Troppi. Lo so, sono snob, ma spesso i nostri connazionali non sono un esempio di vanto all’estero e tendo a cercare di evitarli. Colazione british, stavolta: uova, fagioli, succo d’arancia. Non male.

E poi la British Library, uno di quei luoghi in cui ti perderesti se ne avessi il tempo. L’obiettivo era la mostra sulle mappe “Drawing lines” e, uomo fortunato, sono riuscito a entrare subito.

La mostra partiva dall’idea di accompagnare il visitatore nei vari aspetti che le mappe possono assumere (o aver assunto) nelle vite di ognuno di noi. Dall’iniziale scopo di mostrare il mondo ad aspetti molto più complessi e controversi: Guerra, Pace, Economia, Propaganda, Satira, Pubblicità, Letteratura. Non c’è campo che non venga influenzato dalle mappe o che influenzi a sua volta le mappe. Pensiamo, certo, alle classiche cartine da viaggio, ma pensiamo anche alle mappe necessarie agli attacchi militari, a quelle indispensabili per fuggire da luoghi come Sarajevo, a quelle che testimoniano atrocità come Auschwitz o a quelle che mostrano com’era Berlino ai tempi del muro.

Mappe con giochi dell’oca di epoca fascista, mappe della Terra di Mezzo disegnata a mano da Tolkien su carta millimetrata, mappe di legno studiate per spiegare come navigare tra le isole, mappe che ci mostrano le statistiche delle popolazioni di un’area, mappe che vengono corrette in seguito ad attacchi di guerra.

Le mappe sono nostre compagne costanti da secoli, ci accompagnano, ci guidano e ci indirizzano: a volte positivamente, altre molto meno.

La mostra, meravigliosa, raccontava tutto questo in un giro che non ha richiesto meno di due ore.

Sono momenti come questi che fanno dire grazie. Grazie di poterli vivere.

Uscito dalla British Library restavano poche ore.

Come riempirle? (Che di star seduti non se ne parlava).

Beh, King’s Cross è a due passi, vuoi non fare un salto al Binario 9 3/4? Vuoi non entrare nello shop di Harry Potter e cercare di trattenerti dal comprare tutto? (Anche se quel Trivial, la prossima volta…).

E una volta alimentato il nerd (sia metaforicamente con lo shop che materialmente, che avevo fame) vuoi non aggiungere un’oretta al British Museum? Dai, sono 15 minuti in autobus. E basta farci due passi dentro per stare bene. Basta fermarsi davanti alla Stele di Rosetta, ammirare statue egizie e greche per poi doversi costringere ad andare via, che il tempo di tornare in Italia è quasi giunto.

E qui torniamo a ringraziare il Gatwick Express, vero?

Già, perché uno arriva puntuale, va al binario segnalato, il treno arriva, ci sale e sente il capotreno annunciare che si partirà entro un paio di minuti… salvo poi, un minuto dopo, sentire un nuovo annuncio che no, non è quello il treno che deve partire, che bisogna andare tutti al binario 9 (dal 14) e sbrigarsi. 
Risultato? 
Praticamente un carro bestiame.
30 minuti e passa in piedi.
Quasi quindici minuti di ritardo.
Circa 18£ spesi.

Ma l’importante è non aver perso l’aereo.

Nonostante i miei controlli di sicurezza, stavolta, siano consistiti in:
– Classico metal detector
– Body scanner
– Metal Detector a mano
– Perquisizione.

Mancava solo quella corporale, per la quale non avevo alcuna fretta.

(E sì, gli ho spiegato che forse suonavo per colpa dell’orologio che la collega mi aveva detto di tenere. Ovviamente non ha cagato la cosa.)

Infine il gate. 

Dodici minuti a piedi per raggiungerlo.

Che se volevano partissi da Heathrow bastava dirlo, eh?

Alle 23 ero a casa, dopo un viaggio un po’ a leggere e un po’ in dormiveglia, con la mia musica nelle orecchie e il vicino che ogni tanto sgomitava: e gli applausi all’atterraggio, quelli che ti fanno dire “cazzo, sono tornato”.

Stitch miagolava.

Io ero distrutto.

Ma ad averne di giorni così.

 

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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