Aneddoto

Ci sono giorni in cui non sono tantissime le cose da dire, un po’ perché la routine lavorativa assorbe completamente e non fornisce molto spazio ad argomenti vari.

Ieri sera, poi, l’essere andato a vedere un incredibile e provante Riccardo III con Ralph Fiennes ha fatto saltare il post, sia per l’orario di ritorno che, onestamente, per l’effetto emotivo che uno spettacolo del genere può avere: splendido, ma accidenti che fatica.

Così anche stasera avrei poco da scrivere se non lamentele derivanti da (praticamente) i soliti fastidi con certi professionisti che spero di poter interrompere il prima possibile, ma onestamente non mi andava di far passare un altro giorno senza  post, così mi è venuta in aiuto una piccola coincidenza.

Oggi una persona su snapchat parlava della necessità, all’università, di fare un po’ la faccia come il culo e, partendo da una base di studio, tentare anche quando non ci si sente totalmente preparati: un discorso che, fatte salve eccezioni varie, mi trova piuttosto d’accordo ma che, soprattutto, mi ha portato alla mente un ricordo di qualche vita fa.

Io ho sempre detto di aver imparato con gli anni ad avere, appunto, la faccia come il culo e che per tanto tempo sono stato estremamente timido, con variazioni a seconda degli ambiti e delle situazioni; è vero, però, che certe attitudini devono essere presenti da qualche parte e ci sono state più occasioni in cui ho dimostrato che era così.

Questo brevissimo aneddoto che sto per raccontare è una di quelle occasioni e chi mi conosce da anni se lo sarà sentito ripetere innumerevoli volte (sì, sono noioso e ripetitivo): non ricordo di averlo mai scritto qui, ma anche fosse sono troppo pigro per andarlo a cercare, per cui facciamo come se fosse nuovo e pazienza, ok?

Orbene, era il secondo anno di università e io stavo preparando l’esame di Analisi Matematica II, quello che, senza ombra di dubbio, è stato il più ostico da me sostenuto; era la terza volta che lo provavo: il meccanismo d’esame prevedeva uno scritto, uno scritto/orale e poi un orale, ma lo scritto era strutturato in modo che bastasse anche un minimo errore formale per non andare avanti.

Questa terza volta non solo avevo superato lo scritto, ma anche lo scritto/orale ed ero finalmente all’orale con uno assistente della mia docente.

L’esame stava andando abbastanza bene finché il professore non mi chiese un teorema piuttosto ostico, di cui ricordavo perfettamente l’enunciato ma la cui dimostrazione non si decideva a rimanermi in testa.

Il dialogo fu questo.

– Mi enunci questo teorema
– (Enunciazione del teorema parola per parola, mentre in me iniziano a partire una serie di accidenti – NdA)
– Bene. Ora lei sa anche dimostrarlo, vero?

Momento di attesa. La mia mente si convince che ormai anche questa volta l’esame è fottuto. Ma no, non vuole rassegnarsi, non vuole dargli la soddisfazione di un no. Senza neanche rendermene conto indosso la mia faccia più innocente e distratta e…

– Beh, certo. Ma… io lo so. Lei lo sa. Passiamo oltre.

Ora. Io non so come mi sia venuta quella risposta. Davvero, non lo so. So che lo sguardo assassino del professore mi stava per falciare, quando venne distratto da qualcuno arrivato a porgli una domanda. Alla fine si era scordato della mia risposta o aveva deciso di lasciar perdere. Passai l’esame.

Per dire che sì, probabilmente un po’ faccia di merda lo sono sempre stato.

E sì, certe volte serve eccome.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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