The princess diarist
Quando avevo saputo che Carrie Fisher aveva pubblicato un libro basato sui suoi diari ritrovati del periodo del primo Star Wars avevo deciso senza pensarci due volte che avrebbe dovuto essere mio: complice il buon Bookdepository, ai primi di dicembre era tra le mia mani, pronto per essere letto al momento giusto.
Poi qualche settimana dopo Carrie ci ha lasciati e il proposito è stato immediatamente di leggere il suo libro non appena avessi terminato quello che avevo in corso.
Così eccomi qui, dopo averlo letto nel giro di pochi giorni. Divorato, direi.
Ne è valsa la pena? Assolutamente sì.
Mi è piaciuto? Sì e no.
E no, non è una contraddizione.
Cerco di spiegarmi, partendo dalla struttura stessa del volume.
Il libro si apre con una sezione in cui Carrie parla un po’ della sua infanzia, di come iniziò a recitare prima di Star Wars e di come, poi, si trovò catapultata nel ruolo della nostra adorata Principessa; il racconto arriva fino al momento in cui iniziò la sua non-storia con Harrison Ford che è, a tutti gli effetti, il motivo principale per cui è stato pubblicato questo libro, dopo di che cede il passo a qualche decina di pagine estrapolate dai diari ritrovati per poi tornare a fare una chiusura sul suo rapporto col fandom ad oggi (o, tristemente, a ieri).
Lo stile di Carrie era come lei: capace di sorprendere per analogie, battute, deviazioni sul tema, frecciate, amare verità; solo per questo motivo, la lettura è assolutamente un piacere e motivo di soddisfazione.
Colpisce vedere la lucidità con cui era riuscita ad analizzare il proprio passato ma anche il proprio presente: parlando, ad esempio, del farsi pagare per gli autografi alle convention, lo chiama “la sua versione di lapdance”, ovvero l’esibirsi per denaro come una ballerina di lapdance; non si fa scrupoli a sottolineare quanta poca differenza veda tra quell’attività e una vera e propria prostituzione.
Quindi dov’è la parte meno gradevole? Anzitutto si rimane un po’ a bocca asciutta (ma c’era da aspettarselo) perché gli aneddoti legati al periodi di Star Wars sono strettamente quelli che riguardano la sua non-storia con Ford, cosa che può sicuramente essere interessante, ma che fa venir voglia di molto di più. La parte più debole, però, sono le pagine del diario: si tratta (ma va?) delle pagine di diario di una ragazza di diciannove anni già affetta da disturbo bipolare (non ancora diagnosticato) che ha iniziato una storia con un uomo di 16 anni più vecchio, una storia che nelle sue modalità la fa divertire ma, soprattutto, la fa sentire frustrata.
E una ragazza di diciannove anni, soprattutto se intelligente e coi suoi problemi, non può fare altro che scrivere un diario estremamente melodrammatico, tanto che la Carrie di oggi ha poi sentito il bisogno di ribadire più volte quanto in realtà Harrison Ford l’avesse sempre trattata bene e si fosse comportato bene con lei: il motivo, presto detto, è che altrimenti dai diari sembrerebbe qualcosa di ben diverso.
Ecco, leggere quei diari, cosa che doveva essere elemento principale del libro, ha in realtà, per quanto mi riguarda, tolto punti e spazio al racconto a posteriori di quella donna sagace e pungente che era la Carrie sessantenne.
Ecco perché sì, è valsa la pena leggerlo, ma no, non mi è piaciuto totalmente quanto avrei voluto: mi sono piaciute e mi hanno appassionato la prima e la terza parte, non quella centrale.
Eppure sono bastate quelle a ricordarmi quanto era evidente da tempo: quanto la perdita di Carrie Fisher sia stata grave; non tanto perché con lei se n’è andata Leia, quanto perché è scomparsa una persona che ha dimostrato quanto dalle proprie debolezze si possa costruire una persona forte e quanto dal proprio dolore ci si possa sempre rialzare.
E questo, alla fine, è ciò che conta.