Di palchi, emozioni e risonanze

Per una strana coincidenza di date, ci siamo trovati ad assistere per due sere di fila a spettacoli molto belli ma che hanno in comune tra di loro solo la presenza di una platea: un concerto di musica classica ieri sera all’Auditorium e il classico Cirano di D’Elia stasera al Teatro Litta.

Il mio amore per il teatro penso che sia ormai rinomato, mentre, pur apprezzando da ignorante la musica classica più famosa, ho avuto pochissime occasioni in passato per usufruirne, soprattutto dal vivo.

Inutile dire che entrambe le serate sono state un arricchimento, grazie alla gamma di emozioni in grado di trasmettere o di risvegliare: la scelta dei verbi, in questo caso, è fondamentale, perché quella che trovo un’enorme, ma affascinante e splendida differenza tra i due tipi di spettacolo, sta proprio nel modo in cui coinvolgono e fanno emozionare il fruitore.

Il teatro racconta, lo sappiamo. Racconta per immagini, per suoni, per ambientazioni. Racconta e ci trascina nel racconto con sé. Ci viene raccontata una storia, una storia vissuta da altri, che noi vediamo solo da fuori ed è l’insieme di talento degli attori e del regista, di capacità dell’autore originale e di qualità della messa in scena che ci permettono di ricevere le emozioni di uno o più personaggi, di sentire ciò che loro provano, di empatizzare e trasferire la loro vicenda su di noi e sul nostro vissuto.

È un qualcosa che parte da fuori, ci tira dentro di sé e finisce per infondersi.

Con la musica classica è diverso e parlo esclusivamente della classica, perché un concerto di musica pop o rock ha comunque componenti visive e scenografiche che lo pongono in un punto intermedio.

È diverso, dicevo.

Davanti a voi ci sono persone che hanno un solo scopo: essere uno strumento; si parla di strumento musicale, ma il suonatore stesso è parte integrante di quello strumento: sono un tutt’uno che, insieme, rappresenta a sua volta una cellula di quell’organismo completo che è l’orchestra. 

E l’orchestra non vi racconta qualcosa. Non nel modo che intenderemmo normalmente. L’orchestra vi avvolge in una serie di melodie che vi raggiungono, vibrano e risuonano dentro di voi. E lì, in quel momento, si genera l’emozione, dalla fusione tra le vibrazioni trasmesse dalla musica e la risonanza che trovano in voi. La differenza tra ogni individuo fa sì che non ci saranno due persone con le stesse identiche emozioni in quel momento tra il pubblico. Ovviamente non sto dicendo che nel teatro le emozioni scaturite non siano legate alla persona che assiste, sarebbe un’idiozia, ma un conto è che ci sia una storia, un altro che ci sia una melodia. E per quanto le intenzioni di un compositore possano essere definite, la natura intrinseca del mezzo fa sì che il risultato sia estremamente meno sotto il controllo, senza contare che l’esecuzione stessa entra in gioco.

Ma la differenza vera si nota in un’osservazione banale: se chiudete gli occhi durante un concerto le vostre emozioni si potrebbero amplificare, se lo fate durante uno spettacolo teatrale finiranno per attutirsi, perché perderanno parte della loro fonte.

Se quello che ho scritto finora sembra un’accozzaglia di banalità è perché, probabilmente, lo è: musica e teatro sono mezzi diversi, è ovvio che ottengano effetti diversi. Bene, bravi, siamo d’accordo tutti. Ma ciò che forse si perde di vista è la loro complementarietà, che tanto ho avuto modo di sperimentare in questi due giorni: la musica di quel concerto, le sinfonie, tra quelle suonate, che più erano allineate al mio sentire, hanno risuonato in me, rendendomi strumento finale di quell’esibizione, il meno prevedibile e il più importante al contempo. Sentirsi suonare in quel modo, se si ha la fortuna di essere ricettivi verso quei brani in quel momento. Porta a una perfezione nel sentire che può durare minuti, ore o pochi istanti, ma che sembra mettere le cose a posto o indicare la strada per farlo.

Concedersi entrambi i tipi di stimolo, darsi la possibilità di emozionarsi partendo da noi stessi e da una storia altrui ci dà la possibilità di sentirci completi o, quanto meno, di dirci che è possibile esserlo.

È un gran bel punto di partenza, direi.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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