240. Tradizioni
Non sono credente.
Non lo sono da tanto, se mai lo sono stato.
Ma non c'è bisogno di essere credenti per amare o, comunque, essere legati a certe tradizioni, tralasciando qui il fatto che molte delle tradizioni che si pensano legate alla religione cristiana abbiano in realtà origini più antiche.
In questo momento sto scrivendo sdraiato sul divano in un soggiorno la cui unica luce è rappresentata dall'illuminazione dell'albero di Natale fatto oggi.
L'albero rappresenta per me tanti di quei momenti, tanti ricordi, tanti simboli che è difficile focalizzarne solo alcuni.
Ricordo quando si passava il Natale a Milano coi miei.
In questi giorni, in questa stessa stanza in cui sono ora (sebbene arredata in modo completamente diverso), ci si attrezzava per fare l'albero.
Palline e luci di chissà quale età.
Fili dorati e argentati.
La punta, perché il nostro albero ha sempre avuto la punta, mai la stella.
Un tronco di legno vero per metterlo più in alto e carta per avvolgere la base e non farlo notare.
E io che volevo aiutare e finivo per rompere le scatole frignando.
Ricordo che ogni anno almeno una delle luci si fulminava, facendo saltare l'intera fila e così mio padre si metteva di santa pazienza a cercare quella incriminata, toglierla e rattoppare la fila come poteva: ai tempi non si buttava nulla, se c'era la vaga speranza di ripararlo.
E quelle luci illuminavano la sera, quando si andava a letto.
Esattamente come ora.
Poi, quando iniziammo a fare i Natali nella casa in campagna, quell'albero iniziò ad essere fatto in una veranda, ma le manie di grandezza di mio padre fecero sì che anche l'abete davanti a casa venisse addobbato e, già che c'eravamo, perché non farne una sagoma anche sulla parete esterna della cascina, così che venisse visto dalla strada?
Si divertiva (anche) così.
Io finii per comprare un albero mio, da fare a Milano.
Qualche addobbo vecchio che ripresi da mio padre, un po' di nuovi, qualche luce più moderna e, con gli anni, qualche ricordo dei vari viaggi.
L'anno che arrivò Zen era tanto piccolo che un giorno lo trovammo sdraiato tra i rami a metà dell'albero, posizionato come se non esistesse posto più comodo al mondo.
Oggi lo distruggerebbe, se solo ci provasse.
Poi, per vari motivi, in alcuni anni l'albero e gli addobbi sono saltati.
Sembra assurdo ma non ricordo se l'avessimo fatto quando mio padre morì, ma sono ragionevolmente convinto di no.
E di sicuro non ci fu quando mi ruppi il tendine.
Né quando si partì per New York in quel periodo.
Per un motivo o per l'altro, quindi, negli ultimi anni sono state più le volte in cui non l'ho fatto che quelle in cui l'ho allestito.
Quest'anno ne avevo voglia.
Nonostante quello che ho scritto qualche giorno fa o, meglio, a maggior ragione: il dolore non si sconfigge cedendogli, ma afferrando e tenendo stretti quei ricordi che lo possono tenere a bada; in caso contrario si finisce per renderli inutili e ucciderli prima del tempo.
Ne avevo voglia, sì.
Perché c'è un angolo perfetto che prima non c'era.
Perché quest'anno passerò molti giorni a casa.
Perché mi piace.
Perché poche cose danno più il sapore di casa di essere qui, in questo momento, con le sue luci che spezzano il buio.
E, ovviamente, in alto ha una punta.
Sempre la punta.