82. L’arte di
Sono veramente combattuto nello scrivere di “The art of asking” di Amanda Palmer. Fino a maggio per me era poco più della moglie-di-Neil-Gaiman-che-era-anche-una-cantante-di successo e che seguivo, più o meno con interesse, sui vari social.
Poi a maggio sono andato allo spettacolo che hanno tenuto insieme a Londra e, di nuovo, per me lei era un’aggiunta, non il piatto principale: un’aggiunta che, però, avevo apprezzato molto sul palco, sia nel modo di esibirsi che in quello di porsi sulla scena.
Avevo anche seguito il suo TED talk (base su cui è poi stato scritto il libro) e non mi era affatto dispiaciuto.
Insomma, c’erano tutti gli ingredienti per essere ricettivo nei suoi confronti nonostante non la conoscessi e non fossi certo un suo fan.
Il libro, di per sé, non trasmette affatto un messaggio sbagliato, anzi.
Il concetto che cerca di far passare è che bisogna imparare a chiedere, bisogna imparare a permettere alla gente di aiutarci, bisogna in sostanza far sì che il bene circoli, a volte dando e a volte ricevendo, ma abbassando comunque le difese che ci impediscono di connetterci l’un l’altro.
Vero.
Verissimo.
Encomiabile e assolutamente da sottoscrivere.
Ma, come si sarà capito, c’è qualche ma.
Perché per imparare a chiedere è importante che ci sia di fronte a noi qualcuno di ricettivo; non perché ogni volta che chiediamo dobbiamo per forza ricevere, ma semplicemente perché nel momento in cui non siamo abituati a chiedere e dobbiamo farci forza per farlo, un eventuale rifiuto può sotterrare tutto: l’umore, la speranza e anche la volontà di provarci un’altra volta.
Amanda racconta come ha iniziato a imparare, con lo stile da artista Bohemienne che mai l’ha abbandonata. Bello, assolutamente, ma poco praticabile per chi, invece, non solo non ha mai avuto quello stile di vita ma non l’ha neanche mai sentito come proprio.
E il libro è una somma continua di aneddoti in cui lei racconta o quanto è stata brava a chiedere oppure quanto aveva paura di farlo prima di riuscirci davvero.
Sarebbe ispirante, non fosse che dopo un po’ gli aneddoti iniziano a stonare. Quando un’artista spiantata e senza un centesimo chiede a qualcuno di ospitarla la cosa diventa normale, divertente. Quando un’artista affermata fa lo stesso, affidandosi al fatto che “i fan saranno felici di averla in casa” o, meglio, “in cambio potranno passare del tempo con me”, ecco che qualcosa stona. Quando alcuni degli artisti che invita a suonare ai concerti vengono chiamati con il patto che non verranno pagati ma potranno chiedere al pubblico di fare libere offerte, ecco, io il naso un po’ lo storco.
Qualcosa non quadra in questo suo chiedere, qualcosa che lei trasmette come scontato o naturale e che forse, invece, tanto naturale non è. Il fatto è che a un certo punto diventa facile chiedere se si è circondati da un fandom che per te farebbe di tutto ed è sicuramente avvantaggiante lanciare un messaggio in bottiglia su twitter quando hai (conteggio del 2 luglio 2015, ore 22.32 fuso orario italiano) 1.090.550 persone che ti seguono.
È statisticamente avvantaggiante. Se io, tipo, lancio su Twitter un messaggio per dire che ho forato, sono le 3 di notte e ho bisogno di aiuto, se sono fortunato magari qualcuno mi risponde pure, ma al 90% il messaggio rimarrà senza risposta e io finirò per chiamare un carro attrezzi o farmela a piedi fino a casa. Se Amanda Palmer fa un tweet in cui dice che ha perso l’aereo e non sa dove dormire, al 99% si vedrà arrivare in aeroporto una macchina che la porterà nella casa di un fan o di un follower che le offrirà un divano o il proprio letto.
Sia chiaro, non c’è alcun tipo di “vergogna” nell’avere un seguito tanto ampio, ma bisogna avere anche la lucidità, scrivendo un libro del genere, per rendersi conto che per chiedere, per riuscire a farlo senza pentirsene, bisogna avere anche la fortuna di avere un pubblico ricettivo, qualunque esso sia.
Il suo pubblico, statisticamente, per tradizione, per amore viscerale nei suoi confronti lo è e sono felice per lei che sia così. È indubbiamente un merito aver costruito una sorta di comunità virtuale del genere. Ma non per tutti vale e questo, nel libro, è tristemente sottovalutato.
Troppe volte, proseguendo nella lettura, ho finito per avere l’impressione che, differentemente dall’inizio, a lungo andare questa “arte di chiedere” sia diventata in qualche modo a senso unico o, comunque, fortemente sbilanciata: ripetersi che si è una come tanti non ci rende una come tanti e quando, a tutti gli effetti, si è l’ape regina in un alveare che a volte somiglia a una religione si finisce per essere l’elemento accentratore di questo chiedere.
Potrebbe funzionare un meccanismo del genere, quello di chiedere e sperare che qualcuno dia, a livello generale, a livello universale? Non so, ma ne dubito fortemente. Perché accanto a tanti meravigliosi esseri umani ce ne sono molti di spregevoli, opportunisti, aridi, accumulatori che spezzerebbero il cerchio.
Funziona, e bene, in un gruppo di persone che sono accomunate dalla stessa predisposizione. Diventa estremamente fragile altrove.
Lei stessa, tra l’altro, racconta di un paio di occasioni in cui “il suo cuore si spezzò” perché la gente rispose picche al suo chiedere. Si era rivolta a qualcuno al di fuori del suo mondo, qualcuno che neanche sapeva chi fosse, e non aveva attecchito. Non sempre il terreno è fertile..
Il libro, dicevo, è un’alternanza di aneddoti slegati tra di loro (e anche cronologicamente sfasati, il che a volte è interessante e altre irrita) in cui Amanda racconta di come sia diventata brava a chiedere oppure di come sia stato difficile adattarsi ad avere sposato uno scrittore ricco e di successo (e, in effetti, sono problemi…) o, ancora, di quanto abbia sempre avuto paura di essere scoperta come un bluff.
E qui, forse, trovo la chiave di lettura più vera e significativa del libro. Amanda Palmer esce dalle pagine come una persona che ha un enorme bisogno di assorbire l’amore, il rispetto, l’adorazione da parte di chi la circonda: il suo aver paura di chiedere diventa pertanto paura di giudizio e il suo imparare a chiedere diventa il coraggio di chiedere conferma dell’affetto altrui, un affetto e un tipo di conferma che finiscono per non dissetare mai.
Il suo “I see you” (io ti vedo) ripetuto allo sfinimento finisce per essere una richiesta (neanche tanto) implicita: io ti vedo, dimmi che mi vedi. Ti prego, dimmi che mi vedi e che ti piace quel che vedi, che ti piace la mia arte, che ti piace ciò che faccio. Amami.
E questa è la parte più vera del libro, quella che trovo comprensibile, umana e che dovremmo imparare ad assimilare. Impariamo a chiedere per non sentirci soli. Per non sentirci quelle isole che non siamo e non possiamo essere.
Il problema è che il messaggio è circondato da quel tipo di egocentrismo che solo certe persone assetate di attenzioni riescono ad avere e che finisce per rischiare di far perdere il significato del resto.
A rileggermi si potrebbe pensare che ho odiato questo libro. Tutt’altro. L’ho trovato interessante, l’ho letto volentieri, ci ho sorriso e mi sono sentito toccato in vari punti. Diro di più: il fatto di parlarne così a lungo significa che trovo l’argomento importante e che ha smosso alcuni pensieri. Per questo sono maggiormente critico. Poteva essere di più. L’avrei apprezzato molto ma molto di più se ci fosse stata meno della diva alternativa e più della ragazzina spaventata che ancora, probabilmente, si nasconde dietro l’artista.
E sono sicuro che quella ragazzina avrebbe tante cose da dire e da raccontare.