Storia naturale del nerd
Ecco un libro che avrebbe potuto essere ben diverso (e meglio) da quel che poi si è dimostrato.
L’idea di un saggio sulla categoria dei nerd mi piaceva parecchio e speravo, onestamente, di accostarmi a un libro sicuramente informato ma anche leggero e ironico, con uno sguardo di benevolenza e divertimento verso la categoria.
Purtroppo, si sarà capito, non è così.
Questo non è un libro sui nerd, sulla loro evoluzione, sul loro ruolo.
Questo è un libro che l’autore ha scritto per esorcizzare il suo passato e il suo presente, cercando di razionalizzarlo, di spiegarselo e di, in qualche modo, fare una sorta di autoterapia.
Scopi legittimi, certo, basta che non mi si spacci il libro per quello che non è.
Ci sono spunti molto interessanti, questo è innegabile, ma spesso l’autore parte per una tangente che non è ben chiaro dove vada a parare.
Da paragoni tra i nerd e le macchine, tra il “razzismo” verso i nerd e quello verso le razze orientali per arrivare a “dimostrazioni” che di scientifico non hanno niente se non la volontà dell’autore di trarre deduzioni a lui comode.
Per capirci: l’autore ha avuto seri problemi nel suo relazionarsi con la sua parte (più o meno preponderante) nerd, ma questo non significa che tutti i nerd siano al limite dell’autismo o peggio.
Quel che viene spacciata per un’evoluzione naturale di certe situazioni psicologiche, in realtà non è altro che una somma di coincidenze e di semi che, uniti, portano a un certo tipo di soggetto.
Molti nerd sono asociali e hanno problemi di relazione? Assolutamente sì. Il fatto è che è pericoloso scambiare causa ed effetto solo per autoanalizzarsi.
Ci sono persone che hanno passioni che li distinguono dalla massa. Il fatto che queste passioni non permetta loro di amalgamarsi può generare grossi problemi interrelazionali.
L’autore, invece, si è convinto del contrario: che siano i problemi di queste persone nel relazionarsi a scatenare un certo tipo di passioni, scordandosi quanto siano varie le forme di nerdismo esistenti.
Il fatto che il libro sia una vera e propria forma di mea culpa è dimostrato dall’ultima parte, in cui Nugent racconta della propria infanzia e adolescenza (e, mi scuserete, ma onestamente non potrebbe fregarmene di meno) per terminare con un racconto (letteralmente, un racconto inteso come storia breve di narrativa) che non è ben chiaro a cosa serva nell’ambito del libro.
Un peccato, perché Nugent scrive bene, ha fonti interessanti, è in gamba e avrebbe potuto deliziare ben diversamente.
Si legge bene, scorre veloce, ma non aspettatevi ciò che il titolo promette.