Occhio nel cielo
Oniricità.
Messa in discussione della realtà.
Sono due concetti che chiunque conosca un po’ Philip K. Dick finisce in automatico per associare all’autore.
Verrebbe da chiedersi se non siano limitati i modi in cui un autore può affrontare un argomento: leggendo Dick la risposta è, senza dubbio, negativa.
La capacità dell’autore di mettere in dubbio la realtà, la percezione, le basi che diamo per scontate è tale da riuscire a definirle meglio di qualunque approccio “realistico”: d’altronde, spesso, per vedere la sostanza di una cosa bisogna anzitutto provare a negarla; nella matematica stessa alcune delle dimostrazioni più importanti di teoremi fondamentali avvengono per assurdo, ovvero ipotizzando che non siano veri.
Ecco quindi un nuovo viaggio, stavolta letteralmente nelle menti di un certo gruppo di personaggi volutamente stereotipati degli anni ’50.
La scusa? Un’incidente durante una visita scientifica.
Gli effetti? Le otto vittime di questi incidenti si trovano catapultate in varie versioni del loro mondo, ognuna specchio delle convinzioni più intime di ognuno di loro.
Delle loro fedi, usando il termine in senso più ampio.
Come diventerà quindi il mondo se plasmato sulla mente di un bianco razzista e bigotto? E di una donna che soffre di manie di persecuzione? O di una “signora” di mezza età poco incline alla sopportazione? O ancora di uno stereotipato “comunista americano” (ricordiamoci che il maccartismo era ricordo fresco per Dick)?
L’autore ce lo mostra, ma ci mostra anche quanto possa essere deformante la vista del mondo fatta attraverso ciò che vogliamo vedere.
Perché la realtà è una ma il numero di modi in cui può essere assimilata è pari al numero di persone presenti sul pianeta e, a questo punto, viene da chiedersi: se ognuno percepisce una realtà diversa, se una realtà modellata sulle proprie convinzioni NON sembra assurda, allora qual è, davvero, la realtà?
A che serve ne esista una se ognuno la percepisce diversamente?
Spostando l’attenzione dai pregi del romanzo, si può forse riscontrare una minore incisività rispetto ad altri lavori a causa del tono generale della narrazione: l’approccio di Dick è stavolta meno drammatico e più ironico, fin sopra le righe, rendendo meno inquietante la vicenda stessa ma, proprio per questo, meno memorabile; il sapore che lascia in bocca è lo stesso di quando una persona che siamo abituati a vedere come seria fa una battuta e ci strizza l’occhio: siamo presi talmente alla sprovvista che ci chiediamo quali siano davvero le sue intenzioni e, così, ci perdiamo da una parte il gusto per la battuta e dall’altra l’incisività del messaggio.
Ma, a ben pensarci, anche questa è una realtà filtrata.