Marbles
Ci vuole coraggio a raccontarsi.
Ce ne vuole, a maggior ragione, se quel che raccontiamo di noi stessi è un qualcosa che abbiamo a lungo fatto fatica ad accettare, qualcosa con cui abbiamo dovuto venire a patti con gli anni.
Se poi parliamo di un disturbo mentale, allora l’enormità del raccontarsi è ancora più ammirevole.
Disturbo bipolare.
Ne hanno sofferto tantissimi artisti, nei secoli.
Michelangelo, Van Gogh, Munch, Ralph Waldo Emerson, Mary Shelley, Emily Dickinson, il David Foster Wallace tanto di moda e due volte citato su queste pagine.
Vette e profondità marine.
Felicità incontrollabile e depressione inafferrabile.
Sentirsi degli dei e poi delle merde.
Invincibili e sconfitti in partenza, solo per il fatto di esistere.
Ellen Forney, brava fumettista americana, scoprì di esserlo quando aveva 30 anni.
Reagì come penso reagirebbe buona parte di noi.
Non voleva esserlo.
Non voleva cambiare.
Non voleva tarpare la sua creatività.
Non voleva, in sostanza, essere se stessa ma non voleva neanche negare di essere se stessa.
Marbles è il suo racconto del suo viaggio nel disturbo bipolare.
I mille tentativi di trovare le combinazioni di farmaci giusti.
La paura di non sapersi frenare nei momenti di up e quella di non uscire più dai momenti di down.
Il timore per la propria creatività.
La necessità di scoprire nuove strade per essere se stessa, abbandonando anche ciò che pensava appartenerle di più.
La Forney ci racconta questo viaggio immergendoci nella sua mente, nell’otto volante dei suoi momenti più carichi e nell’apatia della sua depressione.
Ci accompagna per mano per farci capire cosa vuol dire, in un modo che difficilmente potrebbe essere più vero e immediato.
Ci troviamo a sentirla.
Sentire le sue emozioni, desiderare di aiutarla, anche solo con un abbraccio, con un “andrà tutto bene”.
Perché sì, a lei alla fine è andata bene.
Grazie alla volontà di lottare, a una brava psichiatra, ad amici e familiari di supporto, alla sua capacità di osservarsi e ricostruirsi, le è andata bene e non è cosa da poco se pensiamo anche solo alla fine fatta proprio da Foster Wallace.
“Sto bene”.
Così si chiude il volume e mai chiusura fu più degna.
Da leggere per capire.