Essere alleati

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Quando mi chiedono se mi ritengo femminista rispondo sì, immediatamente, senza batter ciglio. E, a ben pensarci, l’ho probabilmente fatto per buona parte della mia vita adulta, magari con qualche indecisione in più andando a ritroso nel tempo: che la parità dei sessi – come veniva chiamata e come suona già antico rispetto a “parità di genere” – fosse un qualcosa di non solo sensato ma anche necessario mi è sempre sembrato così ovvio da non comprendere perché fosse in discussione.
Se, però, affermassi che le mie consapevolezze non sono cresciute nel tempo e che quelle attuali sono paragonabili a quelle di venti o trent’anni fa mentirei spudoratamente.
Quando si cresce in un mondo patriarcale si viene impregnati di tanti di quei concetti, modi di vedere e di pensare che diventano parte di noi anche se non ce ne rendiamo conto e che, prima ancora di poter essere eliminati, vanno riconosciuti, identificati come sbagliati e solo in seguito rimossi chirurgicamente.
Mi è capitato vent’anni fa, mi è capitato nel passato più recente, sono sicuro mi capiterà anche in futuro, perché è un processo che non ha fine.
Ripetiamolo: non ha fine.
Se ripenso a certi momenti del mio passato mi vengono i brividi.
Ricordo che intorno ai vent’anni ero a favore dei matrimoni tra persone dello stesso sesso ma – mi vergogno a scriverlo – avevo dubbi sull’adozione. Il motivo? Mi preoccupavo per come i figli di coppie omosessuali sarebbero stati trattati a scuola dai compagni di classe. Temevo per il bullismo che avrebbero potuto incontrare.
Magari il mio cuore era nel posto giusto, ma il non rendermi conto di quanto quello fosse un segnale del lavoro da fare sulla società e non del limite da non superare era simbolo di quanto avessi da togliere del retaggio patriarcale che gravava sulle mie spalle come su quelle di tutti.
Si potrebbe obiettare che ero giovane, ma pur essendo vero non centrerebbe il punto.
Circa quindici anni fa ero da un cliente. Quel giorno eravamo io e un altro uomo in quell’ufficio: questa persona ebbe una discussione accesa con una collega al telefono e, quando riattaccò, disse non esattamente rivolto a me – ma come detto eravamo solo noi due presenti – “questa stronza meriterebbe proprio di essere st****ta”.
Mi piacerebbe dire che reagii malissimo.
Vorrei davvero vestirmi del manto dell’eroe dei propri ideali che si alza e se ne va.
Non l’ho fatto.
Mi fa schifo dirlo, ma è così.
Ho riconosciuto l’orrore di quella frase, mi sono sentito gelare il sangue, ma non ho fatto altro che fare finta di non aver sentito.
Perché ero in posizione subordinata, perché ero stato preso alla sprovvista, trovate la scusa che volete, perché io personalmente non ne ho identificata ancora nessuna valida.
So solo che non ho reagito e tutt’ora la vivo come una macchia enorme nel mio percorso.
Ora reagirei diversamente? Mi piace pensare di sì, ma so che l’unica vera prova sarebbe trovarcisi e spero ardentemente che non accada, anche se so che è probabile il contrario.
Ma andiamo avanti e giuro che arriverò presto al punto.
Qualche anno fa, furente per qualcosa che non ricordo, definii delle persone “figli di p….a” su Facebook. Un’allora amica mi scrisse in privato facendomi notare che, da persona sensibile su molti argomenti, forse non avrei dovuto utilizzare quella parola come offensiva, dato che era un ragionamento figlio di una cultura sessuofobica.
Aveva ragione. Da allora non l’ho più fatto e, nel tempo e seguendo persone come la bravissima Giulia Zollino, ho imparato ad accorgermi di quanto certe componenti del linguaggio siano ancora da ripulire ben oltre la semplice ma fondamentale questione della neutralità di genere.
Questo lungo excursus mi serviva in primis per far notare che anche chi come me crede, forse in modo presuntuoso, di essere giunto a un buon punto di coscienza e consapevolezza ha fatto una strada lunga che è ben lungi dall’essere terminata ma, in secondo luogo, a sottolineare quanto la differenza tra parole e comportamenti sia tutt’ora fondamentale e da tenere d’occhio, anche con gli alleati.
Io ho pochi amici uomini veramente stretti. In passato mi è stato detto che probabilmente è perché non amo una qualche forma di competizione (cosa che non ho mai compreso), ma la verità più banale è che ho sempre fatto fatica a trovare punti in comune: la coperta è sempre stata troppo corta.
Da bravo nerd non ho mai avuto interesse per le passioni “maschili” (ecco di nuovo il patriarcato) classiche, come lo sport, ma anche nella comunità nerd ho sempre fatto molta fatica a riconoscermi per il diffuso sessismo interiorizzato (non raccontiamoci bugie, tutti lo sappiamo, andate anche solo ad ascoltare l’episodio di Polo Nerd dedicato a Moleste a questo link https://link.chtbl.com/polonerd_moleste).
Più di recente ho frequentato ambienti che avrebbero dovuto essere più sicuri. Più affini, anche proprio per esplicita etichetta.
E ho conosciuto persone, donne e uomini, che sembravano finalmente essere allineati. Giuste posizioni. Giuste affermazioni. Giuste aperture.
Poi però ho visto alcune azioni.
Ho sentito battute pericolosamente sessiste.
Ho visto atteggiamenti inquietantemente vicini alla molestia (e, prima che mi si chieda, ho approfondito con la vittima sia se questi comportamenti fossero stati effettivamente indesiderati sia se ci fosse bisogno di intervento da parte mia).
Da persone, ripeto, che avrebbero dovuto essere illuminate, se mi passate il termine.
Non lo nego, la cosa mi ha amareggiato immensamente, perché se anche in un ambiente sicuro si continuano a trovare certi atteggiamenti che speranza possiamo davvero avere di vincere queste battaglie?
Poi mi sono ricordato il mio passato.
Ho pensato alla strada fatta.
Certo, magari non ho mai agito in un certo modo, ma di errori ne ho fatti molti e nel tempo li ho corretti e, come dicevo in apertura, sono consapevole di non essere arrivato.
Il percorso di rimozione del patriarcato è lungo e difficile e si scontra con aspetti che spesso vengono sottovalutati.
Una persona che si sente sola, che desidera una partner e che non ha finito il percorso può facilmente cadere in certi comportamenti perché – pur non essendo innati – sono interiorizzati: non è una giustificazione, sia chiaro, ma una spiegazione di un meccanismo che va distrutto; se si comprendono le origini di un problema si può agire alla radice, invece di cercare di curarne solo gli effetti.
I famigerati incel nascono (semplicisticamente, ma rende l’idea) così: da una legittima solitudine trasformata in odio verso le donne e l’autonomia femminili a causa di un’incapacità di autocritica e di una falsa legittimazione patriarcale di chissà quale diritto all’accoppiamento.
Il fatto è che parlare è facile, facilissimo, e di uomini che si riempiono la bocca di belle parole di sostegno alle donne è pieno: purtroppo l’insieme di quelli che le mettono in pratica è più ridotto di quanto vorrei ammettere, anche a volte tra nomi altisonanti.
Con questo non voglio dire che tutti mentano per farsi belli, tutt’altro: sono convinto che accanto a troppi ipocriti ci siano anche molti che sono convinti di ciò che dicono e non vedono ciò che fanno o sono fin troppo indulgenti verso le proprie azioni.
La differenza sta nel voler imparare, ascoltare e ammettere gli sbagli.
Gli errori passati non definiscono la persona, se non quando non vengono corretti una volta identificati.
Essere alleati significa voler e dover continuare a lavorare su noi stessi, saper ascoltare chi in questa lotta è in prima linea, riconoscere i nostri errori e, soprattutto, farli poi riconoscere a chi ci è accanto.
Questo è fondamentale: dobbiamo essere noi uomini a correggere i nostri simili in primis.
Noi.
Non è compito delle donne, che già stanno lottando la loro battaglia e non sono tenute a educarci. Il compito è nostro, perché noi parliamo dall’interno. Possiamo e dobbiamo mettere in discussione chi non ha neanche approcciato questo percorso, ma è indispensabile che sottolineiamo gli errori anche di chi invece l’ha già iniziato e sperare che altri facciano lo stesso con noi.
Abbiamo molti privilegi.
Cerchiamo di usarli a dovere.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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