Paure e tagliole
A inizio dicembre, una sera, si è scatenato il mio rettile. Aveva visto una cosa e per lui è stata una minaccia, il ricordo di una, due, dieci, non so quante sofferenze passate. Ha reagito e, se anche per lui era un “combatti o fuggi”, in qualche modo sono riuscito a tenerlo a bada nelle azioni: mi sono costretto a non fare nulla (dove il “fare”, sia chiaro, sarebbe stato alzarmi e andarmene, non immaginate chissà che) perché sapevo che non era nulla di reale. O, meglio, non era reale in quel momento, ma si agganciava a qualcosa di molto reale passato.
Ci sono voluti alcuni giorni per smaltirla, il che mi ha fatto ricordare quanto, sebbene di strada ne abbia fatta, certe ferite e cicatrici restano a lungo lì, pronte per prendere dentro nel primo spigolo un po’ troppo sporgente.
In questi giorni sto vivendo qualcosa di bello, che mi dà gioia e mi fa stare bene e, per vari motivi che non sto a spiegare, diverse paure sono tornate a farsi sentire, a scalpitare in modo anche intenso a volte e tutte, TUTTE, non scatenate da ciò che vivo, ma da associazioni, da ferite, da ricordi, anche – ovviamente – dal timore che quel bello sia solo una vetrina, un’illusione, un qualcosa che ti porta in alto per poi lasciarti cadere quando meno te lo aspetti e farti sfracellare per bene.
Ma qui sopra è scritto a chiare lettere, no? “A volte, quando cadi, voli”.
E quindi sto imparando.
Sto imparando a riconoscerle.
Sto cercando di imparare a capirne la causa.
A disinnescarle o a rassicurarle, se serve.
Perché la paura e le paure non sono il male: avere paura è un comportamento di protezione verso l’ignoto, verso il dolore, verso la morte (fisica o emotiva che essa sia); avere paura è giusto e salutare.
Ma le paure sono anche bambini, sono animali feriti che non sanno cosa può davvero loro fare male, sanno solo che hanno provato o stanno provando dolore e non vogliono provarlo più: lasciare loro la possibilità di prendere il controllo, di guidare le scelte, di fermare la nostra voglia di vivere non ci aiuta a non provare dolore, tutt’altro, fa sì invece che al dolore temuto aggiungiamo quello autoinflitto della privazione, del non vivere.
E non so voi, ma io non sono nato per non vivere, non sono nato per sopravvivere.
“Tutto a piene mani” diceva il buon Robert Heinlein e chi sono io per dargli torto?
Il dolore fa paura? Sì.
Il dolore passato ha lasciato traumi? Una marea.
Ma la soluzione non è proteggersi da tutto, non è cercare di non rivivere quelle situazioni perché la verità è solo una: quelle situazioni non si rivivranno mai, dato che ogni persona è diversa e noi stessi siamo altri rispetto al passato. Possiamo riviverne di simili? Forse, ma resta un’incognita che quelle paure non sconfiggeranno.
E allora è bene ascoltarle, è bene riconoscerle, capire da dove vengono e poi rispondere loro “sì, lo so, ci siamo feriti, ma quello era il passato. Starò attento/a. Ma è il passato. Questo è il presente. E il presente può curare”.
Altrimenti, riusando un’immagine che una persona a me cara ha molto apprezzato, siamo come quegli animali feriti in una tagliola, terrorizzati da chiunque si avvicini, anche da chi quella tagliola vuole aprirla per liberarli e curarli. Loro hanno paura del dolore, ma non sanno che l’unico modo per sopravvivere è uscire da quella tagliola.
Perché sì, anche di paure si può morire.
O smettere di vivere.
Che per quanto mi riguarda è la stessa cosa.