Origliare nel tempo
Qualche giorno fa, in una scatola messa via, ho trovato una musicassetta di cui mi ero completamente scordato. Certo, in casa mia di musicassette ce ne sono ancora molte, ovviamente esclusivamente per ricordo, ma questa era particolare. Era vecchissima e sopra c’era scritto a mano “Sergio Piccolo”.
Improvvisamente mi sono ricordato che quando ero bambino (stiamo parlando di pochi mesi) mio padre aveva preso l’abitudine di prendere un registratore – oggetto che ricordo benissimo, perché anni dopo iniziai a usarlo io – e registrare la mia voce in varie date: un modo per tenere mantenere il ricordo di momenti irripetibili, il che la dice lunga sulla mia necessità di tenere stretti ricordi e momenti passati.
Ovviamente ho deciso di provare ad ascoltare e sono rimasto deluso quando ho scoperto che il mio vecchio walkman, che ancora serbo con affetto, si accende ma ha il motorino di trascinamento rotto ed è quindi inutilizzabile per ascoltare.
La scimmia in questi casi è forte in me, così non mi sono arreso e ho ordinato su Amazon un mangiacassette usb, perché non solo volevo sentire il contenuto, ma avevo deciso che se fosse stato veramente ascoltabile avrei dovuto riversarlo in digitale per salvarlo.
Era ascoltabile.
Sono varie registrazioni, la prima delle quali è del 13 settembre 1974 – quando avevo cinque mesi, e l’ultima di una data imprecisata in cui ho cinque anni e mezzo.
E sì, si sente la mia voce (il 13 settembre ha qualcosa come mezz’ora di nghe nghe, praticamente il mio primo podcast), ma si sente anche qualcosa in più: la voce dei miei genitori.
Principalmente mio padre, che introduce tre dei quattro blocchi, ma in vari momenti anche mia madre o come voce di sottofondo (una telefonata con una parente, in un punto, delle urla – sua caratteristica che non avevo certo bisogno di ricordare – in un altro) o perché cerca di cantare con me.
È difficile spiegare – in un mondo in cui ormai abbiamo immagini e video di ogni cosa – cosa possa significare scoprire un audio di un periodo di cui per lo più puoi avere fotografie ed è ancora più complesso esprimere la sensazione di ascoltarli ora.
Un po’ perché sono più di dodici anni che non sento la voce di mio padre e quasi venticinque che non ascolto quella di mia madre (e già questo basterebbe), ma anche perché io in realtà quelle voci specifiche non le ricordo: ero troppo piccolo, naturalmente, per cui si tratta di voci e ricordi che anche se sono presente non mi appartengono. Ci sono, ma non sono ricordi miei. Sono ricordi dei miei genitori.
L’effetto è quello di aver preso una macchina del tempo ed essermi appostato fuori dalla finestra ad ascoltare una coppia non giovanissima alle prese col figlio.
Una coppia che – in quei giorni – era più giovane di quanto sia io ora: mio padre aveva 39 anni, mia madre 37, io ne farò 47 tra 3 mesi.
Ed è bello, ma anche estraniante, quasi da voyeur non volontario, ma è un reperto prezioso che ho messo al sicuro in digitale e che terrò caro.
Non lo posterò qui, questa volta no, perché è troppo mio. L’ha ascoltato una persona e solo perché volevo condividerlo con lei, ma tanto basta.
Ma qui posso condividere l’emozione, la sensazione di familiarità e al contempo di estraneità, l’amarezza della consapevolezza delle scoperte fatte anni dopo e al contempo la nostalgia per una vita che ancora doveva svilupparsi.
Essere qui, oggi, a 47 anni, in mezzo a una pandemia, senza più nessuno di loro due, con gli affetti più o meno lontani, con la speranza di un sentimento ormai innegabile ma che non sa se avrà il suo spazio, con decine di vite dietro di me e almeno una – si spera – davanti, non so se chiuda un cerchio ma sicuramente somiglia all’essermi fermato a una stazione importante in attesa di ripartire per un viaggio di cui non so bene quali altri stazioni aspettarmi.
Un’ultima postilla. L’ultimo blocco l’ho registrato personalmente. Avevo cinque anni e mezzo, dovevo iniziare le elementari, ma già c’erano alcuni semi del me futuro, a partire dal fatto che canto (con poca intonazione e conoscenza delle parole, ma notevole impegno) le sigle del Grande Mazinga e di Goldrake.
Ma, soprattutto, avevo un netto accento meridionale, con tanto di “condendo” al posto di “contento” (oltre ad avere avuto la cura di segnalare che al momento mi mancavano ben sei denti).
Ebbene sì. Quell’accento milanese che mi contraddistingue è stato acquisito con la frequentazione scolastica: a cinque anni e mezzo sembravo una comparsa di Io speriamo che me la cavo.
Ma, come dicevo, cantavo sigle dei cartoni: definizione perfetta di tratti innati e acquisiti.