Ufficio Reclami (aka Masterclass: un punto di vista diverso)

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A volte ritornano. C’è chi si ricorderà che più di un anno fa avevo iniziato a frequentare la Masterclass di Gaiman dedicata alla scrittura. Molte cose si sono poi frapposte: l’editing del romanzo ha richiesto più energie del previsto e poi, una volta finito, beh, sappiamo cos’è successo quest’anno.

Ma mi ero ripromesso di riprenderla appena avessi stabilizzato alcune cose e io mantengo sempre le promesse, anche quelle fatte a me stesso.

Per cui si riprende. Oggi ho frequentato la lezione dedicata ai punti di vista imprevisti, alle situazioni insolite per un personaggio e l’esercizio era quello di prendere un proprio personaggio e inserirlo, appunto, in una dinamica diversa da quella prevedibile, scrivendo un paio di pagine di conseguenza. Ammetto che non avevo un personaggio pronto (non volendo riprendere quelli del romanzo) e che rimettere in moto i meccanismi si stava rivelando estremamente faticoso. Poi, in qualche modo, è arrivato questo Ufficio Reclami e spero di essere riuscito a tirare giù qualcosa di decente. Non so se piacerà, non so se valga qualcosa, ma è comunque un primo nuovo racconto dopo più di un anno. E forse questo conta qualcosa, no? Per cui ve lo lascio qui e, se vi va, ditemi se vi piace. Grazie.


Non ne uscirò viva. Lo so. Già vedo la lapide: “qui giace Laura Brewer, morì facendo il suo lavoro e nessuno la ringraziò”.

Nah. 

Troppo lungo.

“Qui giace Laura Brewer. Nessuno la ringraziò.”

Ecco, sintetico e ancora più vero. 

Ora posso morire in santa pace, perché tanto a Natale non arrivo.

Tre giorni, tre lunghissimi giorni a gestire clienti… no… belve di satana furenti che pensano sia colpa mia se nel loro pacco c’era una vite in meno. O se l’abbiamo consegnato troppo presto.

Troppo presto, santi numi.

Che stavano dormendo e il corriere li ha svegliati.

Ne usciremo tutti migliori, dicevano.

Tutti chi, di preciso? Che se non avessi questo schifoso plexiglass mi salterebbero alla gola e berrebbero il mio sangue alla spina?

Il virus una cosa buona l’ha fatta, almeno, ma sembra che pure quello sia colpa mia.

Fanculo.

Eccone un’altra.

Sembra vecchissima. No, sembra antica. Quanti anni ha?

Merda, sono le peggiori. Pretendono e credono che tutto sia dovuto. E non capiscono. O non sentono. O entrambe.

Ahia.

Sta sorridendo.

Quando sorridono sono anche peggio. Abbassi le difese il tempo necessario a essere crocifissa. Coi chiodi, che se le cose si fanno si fanno bene. 

Coraggio.

– Buongiorno signora, cosa posso fare per lei?

È ancora più anziana di quanto sembrasse e lo sembrava molto. Sembra un po’ confusa. Si sistema gli occhiali e legge la targhetta come io leggerei le istruzioni di un medicinale.

– Ah, sì. Ecco. Buongiorno cara. Come sta?

 Bene, signora, grazie. E lei come sta? E cosa possa fare per lei oggi? 

Dai, su, prima me lo dici e prima ti faccio andare via.

– Oh, che gentile è stata a chiedermelo. Io sto bene, sa? Purtroppo tante persone che conosco sono state male. Che brutta cosa è successa. Sa, io ho visto la guerra e tutti dicono che siamo in guerra, ma no, questo è diverso. Fanno paura tutti e due, ma non è uguale. Forse perché non si vede. Ma poi la guerra si vede? Non lo so, ma comunque ero piccola. Ero proprio una bella ragazza, nonostante la guerra. E prima ero stata una bella bambina. E lei era una bella bambina? Sono sicura di sì.

– No. Cioè, sì. Cioè, non lo so. Penso di sì. I miei genitori dicevano di sì. Credo. 

Ma cosa sto dicendo? Professionale, dai, mancano solo tre giorni. Dai.

Sorride annuendo.

– Oh, ne sono sicura. Sono sicura che lei era proprio una bella bambina. Con quelle lentiggini, poi. Le aveva anche da piccola, vero? Che dolce.

– Gr… grazie signora, gentilissima. Ma mi dica, cosa posso fare per lei? Ha comprato un prodotto che non andava bene?

– Ah, sì, mi scusi. Sa, alla mia età non parlo con molte persone e mi perdo un po’ via. Ecco, guardi, tanti anni fa io e mio marito abbiamo comprato questo.

Tira fuori un vecchissimo… libro? No, non è un libro, è uno di quegli album fotografici che si usavano una volta, con la copertina rigida e i fogli separati da una velina. Sembra aver vissuto quanto meno lo stesso numero di anni della signora.

– Signora, mi scusi, non capisco. Quando l’avete comprato?

Si illumina.

– È stato il giorno in cui mi ha chiesto di sposarlo. Era il 1936, sa? Ci promettemmo che avremmo messo dentro una foto per ogni nostro anno insieme. Una sola. La più importante di quell’anno. E l’abbiamo fatto. Anche quando siamo stati costretti a stare lontani. Al posto della foto c’era una lettera che mi aveva scritto. O il biglietto del treno con cui è tornato a casa.

Lo fa passare sotto il plexiglass e non posso evitare di sfogliarlo. Odore di polvere, vita e muffa. Ho paura si sfaldi tra le mie mani. Vite così lontane da sembrare aliene. Ragazzini che sembrano adulti. Quanti anni poteva avere lì? Forse uno o due in meno di me. Sembra mia zia. Ma guarda com’erano belli. Ma mi sto distraendo.

– Mi scusi, Signora, ancora non capisco, perché me lo sta portando? Ne vuole un altro uguale? Posso sentire in reparto se esiste qualcosa del genere, ma temo sia difficile, non si usano più ormai.

Mi sorride come se fossi la persona più ingenua del pianeta.

– Oh, cara, no no, mi scusi, non mi sono spiegata. Gliel’ho portato perché voglio lo tenga lei.

Questa, poi…

– Signora, grazie, ma non posso accettare. È un vostro oggetto personale. Cosa direbbe suo marito?

Temo di aver fatto una gaffe enorme. Scuote la testa. All’improvviso sembra stanca.

– La prego. Lo prenda. Non abbiamo più nessuno. Non abbiamo figli. Eravamo solo noi due. E ora…

Non dirlo. Ti prego, non dirlo.
– 
E ora non ci serve più. Ma non voglio vada perso.

– Ma… ma perché io? Perché qui?

– Perché qui è iniziato tutto. E perché un anno fa, mentre io stavo male, mio marito è venuto qui. Mi aveva comprato un regalo. Non siamo ricchi, sa, ma per lui era importante lo avessi quando fossi stata meglio. Ma si era rotto prima ancora di darmelo. Era disperato. Mi ha raccontato dopo che ha provato a riportarlo temendo di essere trattato male, ma ha trovato questa ragazza gentilissima che prima sembrava sulle sue, poi ha capito la situazione ed è riuscita a cambiarlo. Era così felice e grato. Ha detto che aveva le lentiggini e il sorriso e la gentilezza che avrebbe desiderato in nostra figlia, se fosse sopravvissuta. E da allora, ogni volta che siamo tornati insieme, e la vedeva al suo posto diceva “vedi? Quella è la figlia che non abbiamo avuto” e alzava la mano e la salutava.

Un flash. Ricordo quell’uomo. Piccolo, un po’ piegato, vestito come si vestiva mio nonno. Non ricordo quella vicenda, ma questo vecchietto che mi saluta da lontano sì. Mi sento un po’ in colpa. Per me era solo un bizzarro vecchietto simpatico e lui…

– Signora, davvero, non posso accettare. È troppo personale.

Mi guarda e sembra sgridarmi con gli occhi come avrebbe fatto mia nonna. Mi zittisco.

– È il mio ultimo Natale. Lo faccia come regalo a una vecchia pazza, va bene?

Non aspetta che risponda. Allunga la mano sotto la fessura, stringe la mia prima che me ne accorga e se ne va. Lentamente, ma decisa.

Approfitto della mia pausa per chiudermi negli spogliatoi e sfoglio velocemente fino all’ultima pagina. Si stanno abbracciando. In ospedale. Lei è protetta da una tuta e da una maschera, ma non può essere nessun altro. Lui sorride guardandola.

È datata un mese fa.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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