Di illusione e speranza
E siamo a quanti? 48 giorni o giù di lì, con almeno altri 11 a venire e quell'”almeno” che racchiude qualunque cosa al suo interno.
Perché, lo sappiamo bene, sempre che le cose cambino non lo faranno certo come uno schiocco di dita. Quando potrò riabbracciare fisicamente gli amici? Mangiare una pizza fuori? Andare a Bologna? Figuriamoci tornare a Londra, andare al cinema, a teatro o a un concerto.
E sto cercando di usare dei quando invece di se, perché mi rifiuto di considerarli se.
Fatto sta che dopo 48 giorni la stanchezza è sovrana e il pericolo di sfociare nell’apatia enorme, con momenti di quasi normalità e altri in cui l’impressione che il senso delle cose sia sparito si fa pressante.
Come penso di aver detto, quello che più pesa è la mancanza di prospettiva. È il non sapere quando si potrà fare qualcosa (ripeto, niente “se”), il non avere qualcosa di bello e sicuro a cui puntare. Vivere alla giornata in giornate identiche tra di loro e che, sostanzialmente, sono sopravvivenza. Pura e semplice sopravvivenza.
Poi, ovviamente, cerchiamo di tirare fuori il meglio da quello che abbiamo e io sono e rimango grato delle tante chiacchierate in chat, di chi sento ogni giorno e anche di chi ogni tanto si fa vivo per ricordarmi che mi vuole bene, così come cerco di fare io.
E in tutto questo una delle insofferenze più grandi sto iniziando a provarla verso chi cerca di raccontare il dopo. Articoli costruiti su pareri di esperti (ma esperti di cosa? Di qualcosa mai visto prima? Domanda forse populista, ma in questo momento spontanea), deduzioni, previsioni.
E una folla di gente che ci tiene a ricordare che dobbiamo scordarci che il 4 maggio si torni alla normalità. Che la normalità è ancora lontana e, per metterci il carico, che nel frattempo tutto farà schifo e dovremo soffrire. Parafrasi non così lontana da molte cose lette e sentite in giro.
Ecco, ora io avrei un messaggio per queste persone, esposto nella mia solita pacata sobrietà: grazie al cazzo, signori. Grazie. Al. Cazzo. E già che ci siamo, magari, approfittate per andare a farvi fottere.
E questo non è per dire che non sia vero che la strada verso una qualche forma di normalità è ancora lontana, ma perché del vostro carico non ce ne facciamo niente.
Perché, vi sconvolgerà, non ci vuole una cima né un esperto virologo, di statistica o economo per saperlo. Basta guardarsi intorno e avere una mente pensante.
Quando il 7 marzo partì il lockdown lombardo la prima cosa che dissi è che ero sicuro che avrei passato il mio compleanno in lockdown: mi fu risposto di non esagerare e non pensarci, ma alla fine avevo ragione. Non perché fossi chissà quale genio, ma perché era prevedibile che data la situazione non si sarebbe tornati alla normalità così in fretta. Poi è andata pure peggio, ma la base era chiara.
E così, tutt’ora, a meno che di essere imbecilli, distaccati dalla realtà o illusi il fatto che per un bel po’ dovremo fare i conti con una vita ben diversa da quello che era la nostra è evidente.
Allora perché ce l’ho con chi lo sottolinea?
Perché per andare avanti in momenti del genere ci possiamo aggrappare a una sola cosa, che non è solo quello che abbiamo e non può essere il ricordo di ciò che avevamo. Dev’essere la speranza. La speranza che qualcosa di meglio arriverà e che saremo vivi per viverla. La speranza che domani o al massimo dopodomani sarà un po’ meglio di oggi. La speranza che arriverà il momento in cui torneremo a stringerci, baciarci, mangiare la pizza insieme, guardarci senza mascherine, fare l’amore e che sarà non troppo lontano.
La speranza è ciò che ci rende il male sopportabile. Speranza che non va confusa con l’illusione. Illudersi è convincersi che sarà così. Essere certi che tutto verrà cancellato. Essere sicuri che presto non ci saranno neanche cicatrici. Sperare è sapere che anche se queste cose non possono avvenire, qualcosa magari lo farà.
Illudersi è credere nell’impossibile, sperare è attendere il possibile anche se può sembrare improbabile.
Chi continua a ricordare la merda futura dice di voler attaccare le illusioni, ma condanna a morte la speranza.
E noi con essa.