Casa
L’ultima volta che sono uscito di casa, inteso come “fuori dal cancello del condominio, è stato esattamente due settimane fa.
Eravamo vicini al lockdown totale e siccome non sapevo ancora se la sabbia per gatti sarebbe rientrati nei bene garantiti sono andato a comprarne due pacchi tornando a casa a piedi con 20 kg di carico, ma va beh.
Prima di allora c’era stata una passeggiata lunedì sera rovinata dalla sensazione di avere troppa gente attorno e l’ultima spesa in prima persona sabato, in un centro commerciale che ora sembra tanto lontano quanto la luna.
Nelle ultime due settimane il mio mondo sono state le pareti di casa e il vano rifiuti del condominio.
Oggi, però, avevo necessità di andare in farmacia.
La sensazione di vestirmi per uscire è stata una delle più strane. Come un’abitudine che ricordi ma che sembra lontana. Con una tensione di fondo che si ha quando ci si riaffaccia a un mondo che nel frattempo è cambiato.
Ricordo una sensazione del genere quando uscii per la prima volta dopo gli interventi al ginocchio, anche se lì c’era l’entusiasmo della libertà ritrovata, almeno parzialmente.
Qui no.
Qui c’era la tensione di dover muoversi in un mondo diverso.
Ecco, potrei parlare di ciò che ho visto in strada. Delle (poche) persone. Delle (ancor meno) auto. Delle mascherine diffuse ovunque nonostante tutte le informazioni e, soprattutto, indossate nel modo sbagliato o dannoso (tipo il tizio in auto con la mascherina sul mento).
Potrei tirare accidenti contro il panettiere col cartello “se non avete la mascherina restate sulla porta”. Mi limiterò a non metterci piede né ora né quando tutto sarà finito.
Ma quello che più di tutto mi ha colpito e ferito è stata la netta sensazione di essere un estraneo a casa.
Di muovermi per luoghi che dovrei conoscere ma non riconoscerli più. Per le poche persone, certo. Per la mancanza della vita che conosco. Per il clima generale. Sicuramente anche per suggestione, è innegabile.
Ma la sensazione è stata quella.
Amo la mia città. Ho sempre amato vivere in questo quartiere. Ho sempre respirato l’aria di casa mia come di un luogo protetto. Casa, appunto.
Ma oggi no.
Oggi ero un intruso che si muoveva in un mondo di intrusi spaesati, spaventati, a volte cortesi, altre ostili. Ma tutti intrusi.
Questo virus ci sta togliendo tanto. La vita a troppi. La libertà a molti di più. Ma oggi ho sentito chiaramente che mi ha tolto una casa e ha trasformato casa mia in una prigione volontaria che un giorno dovrò ricominciare a riconoscere come rifugio.
Ma lì fuori casa mia non c’è più. Non c’è qui. Non c’è a Londra. Non c’è a New York. Non c’è a Lucca.
Ecco.
Sono tante le cose che mi mancano. Il cinema, i viaggi, il teatro, mangiare fuori, gli amici, gli abbracci, i baci, fare l’amore, passeggiare per 10 chilometri, i concerti.
Tantissime.
Ma mi rendo conto che più di tutto mi manca sentirmi veramente a casa. Anche e sopratutto fuori di casa.
Ecco. L’istinto sarebbe di chiudere qui questo post. Sarebbe a effetto, sarebbe efficace, sarebbe doloroso.
Ma non posso, non possiamo, non dobbiamo permettere che ciò che ci rimane sia solo questo. E la verità quella che guarda oltre l’amarezza e il peso di questa uscita odierna, è che in certi momenti il sapore di casa c’è.
C’è, sì, quando riesco a concentrarmi su qualcosa di mio senza pensare a ciò che mi circonda.
Ma molto, molto di più, c’è quando capitano videochiamate di una o due ore o telefonate di gruppo con persone a cui voglio bene o anche con persone che hanno deciso che per qualche strano motivo sto loro simpatico e hanno voglia di sentirmi. Con cui magari ci sfoghiamo di come stiamo, ma finiamo sempre per sparare le cazzate che ci hanno sempre tenuti uniti.
Ecco.
Quelle cazzate. Quelle risate. Quell’unione.
Anche quelli sono casa.
E quella casa me la tengo stretta.
PS: in realtà sto pensando di andare dal panettiere con la mascherina. Una più adeguata, però. Tipo questa.