Lockdown

Piazza Gae Aulenti, Milano, 11 marzo 2020 (Claudio Furlan – LaPresse) Foto presa da Il Post

Giovedì 12 marzo 2020. Sono le 10.09 nel momento in cui inizio a scrivere questo post e, oggettivamente, non sono neanche particolarmente sicuro di cosa scriverò. Ma so che devo farlo.

Io vivo in una via solitamente molto trafficata e, sebbene mi trovi al quinto piano e lievemente separato dalla strada grazie a un cortile, i rumori in strada sono un sottofondo piuttosto costante. Una mia ex, appena trasferitasi qui, mi diceva che lei di notte riusciva a sentire le vibrazioni della metropolitana.

L’ho sempre trovato piuttosto esagerato (fosse solo perché dopo una certa ora la metropolitana era chiusa), ma comunque rende l’idea.

Oggi no.

Oggi dalla strada si sentono rumori sporadici di qualche mezzo che passa. A volte qualche voce. Ma quel ronzio, non saprei definirlo altrimenti, di vita non c’è. Non oggi.

Siamo in lockdown e, chiariamolo subito, probabilmente era l’unica scelta da fare. Nonostante sia terrorizzato da quanto accadrà dopo, nonostante sappia che sarà un disastro su altri fronti, era necessario.

E lo dico da persona che due giorni fa si è sentita dire che alcuni pagamenti sono quanto meno posticipati e che solo per questo potrebbe passare dallo “stare discretamente” che dicevo pochi giorni fa al non sapere cosa succederà di tanti altri come me. Basta questo, come già dicevo.

Ecco, se devo fare una vera critica a come sta venendo gestita la situazione riguarda esclusivamente questo. Si diceva che ieri sarebbero dovuti arrivare i provvedimenti a sostegno dell’economia. Ancora non è accaduto. E c’è il dubbio che, quando arriveranno, non basteranno o sosterranno soltanto alcune persone.

Si parla di ritardo nei pagamenti dei contributi. Si dovrebbe parlare di loro cancellazione. Ma poi, ovviamente, ci sarebbe il problema di uno stato che non può andare avanti senza i soldi dei contribuenti.

Io non so quale sia la soluzione, non è il mio lavoro, ho votato perché altri lo sapessero. Però so che troppi rischiamo (o rischiano, se i miei pagamenti arriveranno) di non essere uccisi dal virus ma dalla situazione finanziaria. E questo non è “pensare ad altro”. Questo è guardare tutti gli aspetti di un problema mai presentatosi prima.

Si parla tanto di crisi e opportunità, anche a sproposito. Questo è un Paese che da sempre si è focalizzato su alcuni aspetti mettendo in secondo piano altri. Ora c’è una scelta davanti: continuare su questa strada decidendo che ci sono cittadini che vanno salvati e altri che possono morire, spostando solo il focus su chi siano i primi e chi i secondi oppure decidersi per trovare un modo di proteggere il maggior numero di persone, siano esse in pericolo da virus diretto o indiretto (come a questo punto si potrebbe chiamare chi rischia di perdere tutto).

Quando è arrivato l’annuncio del lockdown di ieri una parte di me ha ritenuto che non fosse poi così diverso: alla fine molte attività restano comunque aperte, i mezzi pubblici anche, cosa cambia davvero? Quando ho scritto originariamente questo post sembrava che anche le passeggiate fossero vietate. In realtà non è così, almeno per ora, ma ci dovrebbe volere comunque l’autocertificazione anche per andare a fare la spesa a piedi o andare in farmacia.

Prima si consigliava di stare in casa. Ora è quasi obbligatorio stare in casa. Gli effetti materiali forse potrebbero essere simili, quelli psicologici no e dalla Seconda Guerra Mondiale nessuno nel nostro Paese ha mai vissuto una situazione del genere. Nessuno. Ed è quindi normale sentirsi completamente increduli ed estraniati. Spaventati.

In rete si cerca in tutti i modi di sostenere il pensiero positivo. “Ce la faremo”. “Andrà tutto bene”. Di cercare di cose da fare in casa. Sono, lo dico sinceramente, tutte cose molto belle che cercano di dare supporto. Ma voglio dire a tanti lì fuori: è normale anche sentirsi irritati. È normale rifiutarli e incazzarsi. È normale avere paura per il proprio presente e il proprio futuro. Il vostro malessere è normale. Non è una cazzata, non è una leggerezza, non è qualcosa a cui basti dire “non pensarci”.

È. Normale.

Non ho la soluzione ideale. Non per chi cerca di vedere il lato positivo, non per chi è sopraffatto dall’ansia. Non ce l’ho. Non ce l’ho neanche per me, che sento la mancanza fisica di toccare un’altra persona. Non ce l’ho con Miss Sauron, che ha un modo di gestire queste cose opposto al mio (ed entrambi sono legittimi, perché ognuno ha il proprio, ribadiamolo). Non ce l’ho con gli amici che sento a distanza, ognuno dei quali affronta a modo suo.

Ho la sola certezza che siamo in questa cosa tutti insieme e che proprio per questo dobbiamo sostenerci cercando di ricordare tutti. E lo dico soprattutto a chi può permettersi di stare a casa a bere una birra con la famiglia intorno a sé. “Il sazio non crede al digiuno”, ricordate? Sono felice per voi. Ma approfittatene per supportare chi non sta così bene. Con un “come stai” ora. Con un “ti voglio bene”. Ma anche, quando sarà il momento, lottando affinché siano protetti.

Ecco, quello sì. Dite le cose.

Ditele.

Dite alle persone che le amate, che vi mancano, che volete loro bene.

Ditelo.

Dovreste farlo sempre, ma cazzo, ORA è il momento.

Ditelo.

E non perché domani potremmo non esserci più, non è così (o meglio, lo è sempre). Ma perché se non ce lo diciamo quando siamo al minimo quando cazzo dovremmo dircelo?

10.31.

Ora mi rimetto a lavorare. Per un cliente che non so se mi pagherà, con la spinta di un cornuto e mazziato.

Poi monterò tre episodi di Polo Nerd, col pensiero che magari possano portare un po’ di distrazione in questi giorni.

E giocherò coi gatti.

E cercherò di non parlare con la parete, almeno per ora.

Stay safe.

Tutti.


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Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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