The Handmaid’s Tale: 3×08 Unfit
Disagio. Se dovessimo scegliere una sola parola per descrivere le sensazioni provate nella visione di questo episodio di The Handmaid’s Tale sarebbe disagio. Quel genere di disagio che si prova quando si vorrebbe fortemente dare ragione a un amico, ma questi si sta comportando in maniera talmente becera dal renderlo praticamente impossibile.
La stessa sensazione che si avverte quando si comincia a detestare la protagonista di una serie amata e, quando le viene puntata una pistola addosso, ci si scopre quasi a fare il tifo per la pistola.
Ecco, se lo scopo degli autori è di far odiare June possiamo dire che ci stanno riuscendo perfettamente.
Abbiamo già detto come l’impiccagione della Martha nello scorso episodio fosse tanto (se non più) colpa di Ofjoseph quanto di Aunt Lydia e Ofmatthew e di quanto, al contempo, la donna non desse segno di prenderne atto: in Unfit tale situazione viene portata agli estremi e, pur messa di fronte alle sue colpe oggettive (perché per quanto possiamo odiare Lydia, di tali si trattano), June reagisce alimentando esclusivamente il proprio odio e il proprio desiderio di vendetta.
Mentre abbiamo in qualche modo gradito la comunanza tra le ancelle e il voler far pagare il prezzo delle sue azioni a Ofmatthew, June va oltre. Non c’è più nel suo agire la rabbia dovuta al dolore, non c’è la pura e legittima reazione, bensì un sadismo freddo e calcolatore che già si fa strada durante la confessione per poi esplodere alla fine dell’episodio in quella scena così fredda e crudele da non permetterci di stare accanto all’amico di cui si parlava all’inizio. Non in quel momento, quanto meno.
D’altronde la voce narrante di June racconta direttamente in prima persona il gusto che sta prendendo nel fare del male, nel far soffrire il prossimo e lo vediamo anche nei confronti del Comandante Lawrence: parole d’odio letteralmente sputate addosso all’uomo che, almeno in questo caso, ne esce moralmente superiore.
Deve averti dato una gran soddisfazione dirlo
E June sorride di un sorriso malato che dice, come molte altre inquadrature nell’episodio, quanto la sua bilancia morale si sia ormai spostata.
Che questa sia la chiave di lettura che si voleva dare è chiaro fin dal confronto tra Emily e Moira dell’episodio precedente e, per quanto razionalmente si possa comprendere, il risultato è che la serie si sta alienando l’empatia nei confronti della protagonista, rischiando così il disaffezionarsi dello spettatore.
Ofmatthew era irritante? Assolutamente sì. Era corresponsabile della morte della Martha? Ovviamente. Ma si trattava anche di una donna evidentemente fragile che cercava a sua volta di sopravvivere. June, questa debolezza, l’ha vista e l’ha volutamente schiacciata esclusivamente per il desiderio di sangue.
In cosa, a questo punto, è diversa dai suoi carnefici?
La statura morale di un personaggio non è data dal suo agire secondo principi quando tutto va per il verso giusto, ma dal non superare una certa linea quando ogni cosa crolla. Gilead è – sempre meno – una metafora, ma ciò non toglie che il principio sia valido e che, narrativamente, sia rischiosissimo far intraprendere una strada del genere alla protagonista.
Va inoltre ribadito quanto l’invulnerabilità di June sia ormai assurda e, al contempo, di quanto lo svolgimento delle trame sia sempre più finalizzato all’obiettivo a discapito della coerenza. June non subisce punizioni reali. Mai. Le conseguenze per un qualunque altro personaggio della serie che avesse agito come lei sarebbero state gravissime, a partire da torture varie per arrivare ad amputazioni e morte. Per lei no. E quest’aura di consapevolezza che traspare dal personaggio stesso rende il tutto ancora più irritante.
Ma anche la morte di Ofmatthew lascia perplessi, nonostante sia emotivamente coinvolgente. L’Ancella è incinta, ovvero in uno stato che la dovrebbe rendere virtualmente intoccabile in Gilead. Lydia non è, in quel momento, altrettanto importante. Eppure le guardie sparano a Ofmatthew uccidendola per salvare la vita all’anziana. Una forzatura che, di nuovo, si discosta dalla qualità di scrittura a cui la serie ci aveva abituati.
Un discostamento che si percepisce ancora di più nei flashback dedicati proprio a Lydia. Sebbene fossimo curiosi una volta saputo di questo focus, a posteriori viene da chiedersi se ce ne fosse davvero bisogno. Se, infatti, in passato i flashback ci hanno aiutato a comprendere meglio i personaggi – protagonisti o antagonisti che fossero – e ad inquadrarne il presente in funziona del passato arrivando, come nel caso di Serena, a provare un parziale dispiacere nei loro confronti, qui il risultato è tutt’altro che raggiunto. Lydia ci viene mostrata sostanzialmente come una versione acerba della donna che è diventata.
Già credente – ma dove fa comodo – e già pronta giudicare le vite altrui secondo una superiorità morale mal riposta. Ciò che più di tutto fa storcere il naso è la motivazione del rifiuto (e neanche così drastico) alla base del suo sadismo vendicativo: una scelta non solo banale, ma che toglie più che aggiungere interesse nei confronti del personaggio.
L’episodio promette molto e mantiene pochissimo, quindi. Non abbiamo alcun avanzamento di trama, non abbiamo approfondimenti interessanti sui comprimari (e la mancanza della storyline canadese pesa parecchio) e, in compenso, abbiamo un gratuito passaggio al lato oscuro della protagonista che porta sempre più a chiedersi: perché, di preciso, bisognerebbe andare avanti a guardare questa serie, comparto tecnico a parte?
La speranza, a ogni episodio più flebile, è che gli autori sappiano darci entro la fine della stagione una risposta degna che faccia dimenticare o quanto meno perdonare i crescenti difetti, anche nell’ottica delle potenziali dieci stagioni di cui Bruce Miller si era vantato in alcune interviste.