Black Lightning: Season 2 – troppe cose da dire per dirle tutte bene
Nella sua prima stagione, Black Lightning si era rivelata una piacevole sorpresa nell’ormai sempre più desolante panorama delle serie supereroistiche CW, arrivando a sembrarci – facendo un confronto con un altro prodotto con vari punti di contatto – ciò che Luke Cage avrebbe dovuto essere. Inutile sottolineare, quindi, quanto la seconda stagione fosse attesa come una cartina tornasole dell’effettiva qualità dell’intera serie: prova che, lo anticipiamo, è superata solo in parte.
La stagione precedente, oltre a soffrire del problema sui finali di cui abbiamo recentemente parlato, aveva denotato alcuni difetti nella struttura narrativa che, sul lungo periodo, rischiavano di passare dall’essere perdonabili al diventare inaccettabili e che, purtroppo, si trovano confermati in questa Season 2 insieme ad altri che potremmo considerare figli del voler strafare.
Black Lightning ci era stato presentato come sostanzialmente un eroe locale, quasi di quartiere, focalizzato sul benessere della sua comunità e sulla lotta alle fin troppo frequenti discriminazioni nei confronti della popolazione di colore. Il messaggio di lotta sociale è stato integrato fin dal primo episodio, insieme all’infrequente formula dell’eroe padre di famiglia, diviso tra i propri doveri come preside, come genitore e come metaumano in un mix francamente nuovo e proprio per questo interessante, soprattutto con la veloce inclusione nelle attività superumane prima di Anyssa e poi, più di recente, di Jennifer.
La seconda stagione non ha abbandonato questo focus, ma ha tentato di rinnovarsi ed espandersi aggiungendo un numero eccessivo di sottotrame, molte delle quali sono risultate fini a loro stesse e gestite con un eccesso di ingenuità o superficialità.
I sedici episodi subiscono un inusuale suddivisione in cinque libri: Il Libro delle Conseguenze, Il Libro del Sangue, Il Libro della Ribellione, Il Libro dei Segreti, Il Libro dell’Apocalisse. Il rafforzamento dei già molto forti richiami religiosi (ricordiamo il Black Jesus più volte citato nella stagione passata) è evidente e la suddivisione viene utilizzata per raccogliere i relativi episodi (da un minimo di due a un massimo di quattro) sotto un ombrello che in qualche modo ne definisca la sottotrama portante.
“Conseguenze” si occupa di gestire il post-Stagione Uno, “Sangue” porta il focus sui Sange, “Ribellione” sulla fuga di Jennifer e Kalhil, “Segreti” sui tentativi di portare allo scoperto Tobias e “Apocalisse” sulla fine di quanto messo in moto. Come si potrà immaginare sono narrazioni potenzialmente troppo lunghe per poter essere affrontate degnamente in così pochi episodi e l’effetto è spesso insoddisfacente.
Se da un lato abbiamo, infatti, la narrazione relativa ai ragazzi nelle capsule, che si dipana per buona parte della stagione e pone le basi anche per la terza, sull’altro fronte ci vengono dati in pasto: la trama dei Sange, il nuovo assurdo preside della scuola, l’inutile fuga di Painkiller e Jennifer, il continuo avvicendarsi di aiutanti di Tobias, le ripetute resurrezioni di Lala che sembravano dover cambiare le carte in tavole e sono invece esplose in una bolla di sapone e, non dimentichiamola, l’insulsa sottotrama legata a Grace, che magari verrà ripresa nella prossima stagione ma che in questa è servita solo a consumare il minutaggio e la pazienza dello spettatore.
Il tutto va a unirsi a un plot principale il cui antagonista, il già citato Tobias Whale, ha ormai perso qualunque tipo di attrattiva, trasformandosi più in una macchietta sopra le righe che in una minaccia di cui lo spettatore riesce a percepire la gravità. L’impressione è, al contrario, che gli eroi siano in qualche modo fin troppo persi per risolvere velocemente la questione del loro villain, con relative conseguenze sul pathos generale.
Eppure, nonostante questi non piccoli difetti narrativi, la serie riesce a mantenersi ancora a galla sfruttando i punti di forza già mostrati nella prima stagione: le dinamiche familiari sono realistiche, sia nei momenti di ironia che in quelli più commoventi passando per gli scontri interni più o meno gravi. Se vogliamo trovare uno o due difetti in questo ambito potremmo puntare il dito su Jennifer, il cui comportamento è sempre più prevedibile e irritante, e su alcune reazioni di Lynn durante il Libro Terzo, più intenta a ubriacarsi che a trovare soluzioni effettive, una reazione piuttosto fuori dal personaggio forte che ci è stato delineato prima e dopo.
Rimanendo su Jennifer, pur ricordandoci che stiamo parlando di un’adolescente abbastanza tipica – coi pregi e i difetti che ciò comporta – dobbiamo anche ribadire che essere adolescenti non significa essere sempre anche bastian contrari. Il meccanismo per cui la ragazza fa una promessa che poi immediatamente non mantiene è talmente abusato nel corso della stagione da far sì che quando questo avviene nel finale, con potenziali drammatiche conseguenze, lo spettatore sia piuttosto propenso a sperare che venga uccisa dagli avversari del momento: di certo non l’effetto che gli autori avrebbero voluto, osiamo pensare.
[pullquote]La terza stagione dovrà diventare necessariamente un meccanismo ben oliato che abbandona alcuni cliché interni e gestisce meglio le varie linee narrative.[/pullquote]
L’avere troppo da dire e troppa fretta nel volerlo esprimere ha quindi tarpato parte delle potenzialità della stagione, arrivando però a concludere il ciclo narrativo principale e qualcuna delle sottotrame, lasciandone aperte alcune e dimenticate altre. Il gancio fatto per la terza stagione apre la porta a uno scenario completamente diverso che, però, andrà gestito in modo molto più adeguato. Una stagione può manifestarsi in modo acerbo e la seguente può mostrare difetti di crescita, ma la terza deve diventare necessariamente un meccanismo ben oliato che abbandona alcuni cliché interni e gestisce meglio le varie linee narrative.
Staremo a vedere.